Beatrice Venezi, l’antifascismo alle vongole e Popper e la Costituzione citati a sproposito

by Enrico Ciccarelli

Non ho preparazione musicale adeguata a giudicare la valentia di Beatrice Venezi, direttrice d’orchestra contestata in Francia e a Lucca per presunte opinioni e appartenenze «neofasciste». Mi pare ragionevole che sia brava, perché la professione che svolge, di cui la mia amica Gianna Fratta è un luminoso esempio, è così difficile e complicata che è problematico farla per raccomandazione o per appartenenza ideologica. Mi pare altresì ragionevole ritenerla di destra perché ho letto dichiarazioni a lei attribuite («non mi vergogno di avere avuto un padre dirigente nazionale di Forza Nuova; mi vergognerei di avere avuto dei genitori che fumavano spinelli») che mi pare la collochino, più che a destra, nelle armate del Cardinal Ruffo in lotta contro il Secolo dei Lumi. E forse anche queste opinioni hanno contribuito a far sì che il ministro Sangiuliano l’abbia nominata sua consulente per la musica (non chiedetemi perché mai il ministro della Cultura abbia bisogno di un consulente musicale; ma non credo sia un’innovazione di Sangiuliano).

Vi urta sapere che me ne frega pochissimo? Probabilmente se io e la Venezi ci trovassimo a parlare di politica a cena ci tireremmo i bicchieri dall’una all’altra parte del tavolo, ma non è per le sue opinioni che vado a sentire le sue direzioni, né mi viene in mente di condividere le sue idee perché sa usare la bacchetta. Ho quell’idea un po’ antica e retrograda per cui Ezra Pound è un poeta immenso anche se fu nazifascista (assai più e molto più dannosamente della Venezi, credetemi), Cèline è un grande scrittore anche se è un vomitevole antisemita e così via. Sono felice che la pensasse come me Gianni Rodari, se è vero come è vero che negli ultimi giorni di guerra, da comandante partigiano della Brigata Garibaldi, procurò al grande pittore fascista Mario Sironi in fuga da Milano un salvacondotto che con ogni probabilità lo salvò dalla fucilazione.

Quando ho visto la grandissima Valentina Lisitsa eseguire Rachmaninov al Giordano di Foggia sono stato molto felice che non fosse ancora arrivata, per lei, ucraina, la fatwache le ha impedito di esibirsi in altri luoghi perché colpevole di avere suonato (anche) per l’esercito russo a Mariupol. Benché abbia il poster di Zelensky in camera, l’ho trovata una cosa idiotissima, ma mi rendo conto che la guerra e le sue atrocità ottenebrano le menti migliori. Che però questo avvenga in tempo di pace è grottesco. E siccome non c’è mai limite al peggio, è stato messo sul conto della Venezi anche la «scellerata scelta» di far eseguire a Lucca, nell’ambito delle tradizionali celebrazioni pucciniane, l’Inno a Roma. Si tratta di un brano patriottardo e retorico, come tutti quelli del genere, illuminato dal genio musicale di Puccini, illustrato dai versi di Fabio Salvatori, in buona parte presi dal Carmen Saeculare di Quinto Orazio Flacco.

«Poi dicono che non sono fascisti…» ha commentato l’ineffabile Tomaso Montanari su twitter. Perché? Cosa c’entra con il fascismo questo brano composto nel 1918? Nulla. Solo che il Fascismo, nell’ambito della stessa farlocca e immaginaria connessione fra Italia e Impero Romano (che nutrì tanto del nostro Risorgimento) lo adottò come brano magniloquente e celebrativo, e lo stesso fece, nel dopoguerra, il Movimento Sociale Italiano. Nel poderoso cervello del professor Montanari Puccini è così diventato un araldo del fascismo, la Bohème celebra l’assoggettamento della Cecoslovacchia a Hitler e Madama Butterfly preconizza il Patto Tripartito. E poi, diciamoci la verità: quando si parla di Roma, non si parla della civiltà che ha inventato il fascio littorio?  È un bene che l’inflessibile Tomaso non si sia addentrato nell’analisi del testo della «Canzone degli Italiani», il nostro monco inno nazionale in cui quella camicia nera ante litteram di Goffredo Mameli insinua –l’infame- che «tutti i bimbi d’Italia si chiaman Balilla». E ci sarebbe da tenere d’occhio quel gaglioffo di Joseph Haydn, il cui Inno imperiale venne usato da Kaiser Guglielmo, Adolf Hitler e Konrad Adenauer come musica dell’inno tedesco «Deutschland, Deutschland über alles»

Ma lasciamo stare lo sciocchezzaio di Montanari. Il fatto è che molte persone, anche provviste di cultura e buonsenso, sono convinti che la frase «Il fascismo non è un’opinione, ma un crimine» abbia un qualche fondamento giuridico. Come per quella, assai più bestiale, «uccidere un fascista non è reato» è completamente falsa, tanto più se a fondamento di questa tesi si mette quello che è passato alla storia come «il paradosso della tolleranza» di Karl R. Popper o, in Italia, la XII disposizione finale della Costituzione della Repubblica.

Il grande pensatore austriaco, ne «La società aperta e i suoi nemici» enuncia il rischio che una società illimitatamente tollerante sia destinata a essere distrutta dalle frange intolleranti presenti al suo interno. Rivendica quindi il diritto-dovere delle società aperte a reprimere e sopprimere le forme organizzate dell’intolleranza (Popper pensava a ideologie politiche; oggi il tema riguarda in misura maggiore fedi religiose vissute in modo radicale). Ma è Popper stesso a sostenere che il ricorso alla repressione debba essere inteso come extrema ratio, quando l’intolleranza minaccia di distruggere la pacifica convivenza delle idee.

Allo stesso modo, né la Costituzione né le leggi della Repubblica proibiscono a qualcuno di essere fascista, o di essere un adepto della Chiesa di Maradona, o di avere come sogno erotico preferito Tina Pica. È un Paese libero, che tutela il diritto di avere ogni opinione e di manifestarla, con il solo limite dell’ordine pubblico e del buon costume. I costituenti previdero invece il divieto di riorganizzare, sotto qualsiasi forma, il disciolto Partito Nazionale Fascista. Le leggi Scelba e Mancino, non senza qualche problema sistemico, hanno collegato a questo divieto anche l’apologia del fascismo. Ma questi crimini sono tali perché collegati a un’intenzione politica, non come manifestazione di personale convinzione. Diversamente a Predappio non avremmo un merchandising del Duce e del Ventennio che nemmeno San Giovanni Rotondo con Padre Pio. E non avremmo applaiudito per anni Romano Mussolini come sperimentato jazzista, nelle librerie (non tutte) non si troverebbero il famigerato Mein Kampf o le opere di Mussolini, l’Enriclopedia Trccani non avrebbe la voce Fascismo firmata in prima persona dall’Uomo della Provvidenza (anche se in realtà la scrisse Giovanni Gentile).

C’è in questa situazione anche l’allergia italiana alla verità e alla responsabilità: ci sarà un motivo se a Norimberga impiccarono i gerarchi nazisti, se in Francia fucilarono i collaborazionisti e se in Italia (crimini e atrocità della Volante Rossa a parte) i conti con il Fascismo si ritennero saldati con la mattanza di Dongo e la macelleria di Piazzale Loreto. Comodo, ipocrita e quasi indolore. Ma che a quasi ottant’anni di distanza si voglia far pagare il dazio di quell’ipocrisia a Beatrice Venezi dice solo che gli intolleranti da cui la società aperta deve difendersi non sono soltanto a destra. Anzi.

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