Con tutto il quorum. Qualche riflessione sulla vittoria del partito irresponsabile

by Enrico Ciccarelli

Mi trovo per l’ennesima volta a fare parte di una minoranza, in particolare di quella decisamente esigua che si è recata alle urne per i cinque referendum in materia di giustizia. Si tratta del peggiore risultato nella storia delle consultazioni referendarie, e forse del colpo di grazia all’unico istituto di democrazia diretta presente nel nostro ordinamento. Un istituto, quello del referendum abrogativo talmente mal sopportato nella Prima Repubblica che ci volle il vulnus concordatario che il Vaticano vide nella legge Fortuna-Baslini sul divorzio per arrivare a una legge che ne disciplinasse lo svolgimento, e la Costituzione era in vigore già da ventidue anni.

I Padri Costituenti, terrorizzati da ogni possibile tentazione autoritaria o demagogica, vollero che il referendum fosse esclusivamente abrogativo, lo esclusero per un gran numero di materie e lo vincolarono a un livello partecipativo che allora sembrava il minimo sindacale (tenete presente che partecipò al referendum sul divorzio, nel 1974, quasi il 90% degli elettori) e che oggi appare proibitivo, tant’è vero che solo una volta nell’ultimo quarto di secolo è stato raggiunto.

È chiaro che “regalare” al partito dell’astensionismo quel quarto abbondante di elettori che non vota più per nessun motivo e in nessuna consultazione apre un’autostrada alle ragioni dei No, e forse sarebbe ragionevole modificare il quorum  (a mio parere necessario) legandolo –ad esempio- al 50% dei partecipanti alle ultime elezioni politiche generali, come qualcuno aveva proposto. Come che sia, è bene dire con chiarezza che le regole, finché sono in vigore, vanno rispettate, e che in nessun caso per i referendum abrogativi si può ipotizzare che la partecipazione al voto sia un dovere, né sul piano giuridico né su quello etico.

Detto questo, non è sorprendente che la causa del giustizialismo forcaiolo abbia fatto facile breccia. È l’orientamento di pensiero prevalente nel nostro Paese, e già nel 1978 la ragionevolissima richiesta di abrogare l’ergastolo venne bocciata in modo clamoroso (oltre il 77% di No), malgrado il Partito Comunista, provvisto di un coraggio e di un’autonomia di pensiero oggi del tutto assenti nella cosiddetta sinistra, avesse dato indicazione di voto per il Sì. Non si tratta di un’esclusiva dell’opinione pubblica italiana: in buona parte del pianeta è dura a morire l’idea di una «legalità» assai vicina alla legge del taglione.

In questa circostanza il fascino antico di quella barbarie si è felicemente collegata al circuito mediatico-giudiziario che tiene da trent’anni e oltre avvinti in micidiale amplesso le Procure e i gruppi editoriali. Un partito irresponsabile che non intendeva solo far mancare il quorum, ma provocare un flop epocale, tale da affossare o edulcorare ulteriormente la Legge Cartabia. Missione compiuta.

Il doveroso rispetto per l’esito elettorale, tuttavia, non può lasciar passare alcune nozioni aberranti che circolano sui social e fra opinionisti più o meno accorsati. La principale è la contrapposizione fra i referendum per la giustizia giusta e quelli per l’eutanasia legale e la liberalizzazione della Cannabis. È una vergognosa e meschina falsificazione, e non solo perché gli otto quesiti, ridotti a cinque dalla discutibile roncola della Corte Costituzionale, sono stati promossi dallo stesso attore politico, ossia il Partito Radicale (anche se poi quelli sulla Giustizia hanno avuto una trazione leghista). Ma anche perché è difficile non vedere la comune ispirazione liberale e libertaria, antiproibizionista, garantista e tutrice dei diritti individuali in tutti i temi su cui si chiedeva il pronunciarsi del popolo.

La bocciatura della Consulta, a mio sommesso modo di vedere speciosa e strumentale, ha fatto scopa con la diffusa opinione che la gente non sia andata a votare perché i quesiti erano «troppo tecnici» e che il voto popolare sarebbe stato un pessimo surrogato del lavoro del Parlamento. Un’idea rilanciata in prima serata da un «maitre-à-penser» come Luciana Litizzetto e immediatamente utilizzata come foglia di fico (insieme, naturalmente, al «non diamo ragione a Salvini»). Scusa abbastanza patetica, in un Paese che può contare su legioni di virologi d’occasione, studiosi di geopolitica pret-à-porter, e commissari tecnici della Nazionale in quantità. Ma soprattutto negazione di una realtà autoevidente: il Parlamento è da decenni incapace di legiferare.

Perché? Per il bicameralismo paritario, innanzitutto, cervellotico e inasprito da regolamenti parlamentari demenziali; ma anche per la riserva di legge, che obbliga a varare con rango di legge provvedimenti che potrebbero tranquillamente essere regolamentari. In generale perché l’architettura del nostro ordinamento, per molteplici ragioni, è consociativa, basata sullo scontro e il compromesso fra i partiti. Distrutti per via giudiziaria i partiti, è rimasta la seduta spiritica di un Parlamento che ogni tanto (cfr. ddl Zan) finge di voler porre mano a una legge impegnativa per poi ritirarsi in buon ordine. 

Non è un caso che l’unica legge di questo millennio in materia di diritti, quella sulle unioni civili, sia stata approvata solo per la questione di fiducia posta dal Governo Renzi e il collegato dolorosissimo sacrificio della stepchild adoption. Perché, nell’attuale situazione, il Parlamento è un luogo di leggi-delega e di ratifiche di decreti. È stato un buon affare, in questa situazione, azzoppare in via forse definitiva l’unico strumento che permetteva di sparigliare? Non saprei. Il partito delle Procure può legittimamente festeggiare; ma tra le vittorie si contano anche quelle di Pirro.

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