Elegia del sorriso, l’enigma umano del pianto evitato

by Enrico Ciccarelli

Ciao amiche e amici carissimi.

Una delle più belle suggestioni sul sorriso lo lega a un pianto trattenuto. Il bambino, vedendo la madre che si china su di lui, è istintivamente spaventato; ma poi la riconosce e si rassicura. Il sorriso rappresenterebbe quindi lo sciogliersi di una tensione, l’allentarsi dei muscoli facciali già contratti per il pianto. Se non è vera, è ben trovata.

Di sicuro il sorriso è un enigma di specie, perché non so di altri animali capaci di sorriso, e la scopertura dei denti è in quasi tutti i mammiferi un segnale di aggressività o di paura.  È un atto sommamente umano, che spesso, grazie ai neuroni a specchio, è frutto di contagio, empatia, partecipazione. Come insegna l’aforista, «un sorriso è quasi sempre la risposta a un altro sorriso». Come tutte le azioni umane, però, anche sorridere è atto ambiguo, molteplice. A me è sempre piaciuto sorridere, ben prima che gli smilie iconici dell’età dei social lo rendessero pandemico. Sarà perché risus abundat in ore stultorum, e alla presidenza del Club degli Stolti sono iscritto dalla nascita; sarà perché dei personaggi del Cuore mi era irrimediabilmente simpatico l’infame Franti, che rispondeva con un sorriso obliquo ai rimproveri bolsi dell’ordine costituito; sarà  perché l’idea del sorriso come attributo demoniaco me lo rendeva ancor più piacevole (solo molti anni dopo ho capito, grazie a Faber, che il sorriso è di Dio). Sta di fatto che ho sempre sorriso, e di conseguenza mi sono stati attribuiti sorrisi senza allegria, sorrisi sarcastici, sorrisi ipocriti. Perché il sorriso è metamorfico, i suoi significati sono decisi da chi lo riceve, non da chi lo emette. Per questo non possiamo esimerci, davanti al quadro più famoso della storia, dal chiederci cos’abbia Monna Lisa da sorridere.

I poeti, che negli enigmi si trovano a meraviglia, non hanno mancato di dedicare attenzione al sorriso. A cominciare, dal grande visionario, William Blake. Artista poliedrico, come si addice all’epoca sapienziale in cui visse, fra la seconda metà del XVIII e la prima del XIX, Blake ha anche scritto poesie memorabili, intricate, piene di spunti esoterici e passione mistica. Questa è forse una delle meno criptiche.

IL SORRISO

C’è un sorriso d’amore,
e c’è un sorriso d’inganno,
e c’è un sorriso dei sorrisi
in cui questi due sorrisi si incontrano.
E c’è uno sguardo d’odio,
e c’è uno sguardo di disprezzo,
e c’è uno sguardo degli sguardi
che tentate di scordare invano;
perché si pianta nel profondo del cuore,
e si pianta nel profondo della schiena
e nessun sorriso che mai fu sorriso,
ma un solo sorriso soltanto,
ché fra la culla e la tomba
si può sorridere soltanto una volta;
ma, quando è sorriso una volta,
c’è una fine a tutta l’angoscia.

Meno inquietante e controverso il sorriso di cui parla il fluviale Pablo Neruda, fra i poeti più celebrati dei cinque continenti, magistrale tessitore di metafore (nel Canto generale, ad esempio, il condor viene definito in successione «frate solitario del cielo, nero talismano della neve, uragano della falconeria») e più amato dagli innamorati (et pour cause!) che dai critici letterari. Trovo un divertente paradosso che il nome d’arte da lui scelto (come omaggio al poeta ceco Ian Neruda) ha largamente superato in fama e celebrità colui che l’ha ispirato. Perché noi viviamo l’istante, come fossimo in una foto; ma la vita e la storia sono dei film. Come che sia, ecco

IL TUO SORRISO

Toglimi il pane, se vuoi,
toglimi l’aria, ma
non togliermi il tuo sorriso.
Non togliermi la rosa,
la lancia che sgrani,
l’acqua che d’improvviso
scoppia nella tua gioia,
la repentina onda
d’argento che ti nasce.
Dura è la mia lotta e torno
con gli occhi stanchi,
a volte, d’aver visto
la terra che non cambia,
ma entrando il tuo sorriso
sale al cielo cercandomi
ed apre per me tutte
le porte della vita.
Amor mio, nell’ora
più oscura sgrana
il tuo sorriso, e se d’improvviso
vedi che il mio sangue macchia
le pietre della strada,
ridi, perché il tuo riso
sarà per le mie mani
come una spada fresca.
Vicino al mare, d’autunno,
il tuo riso deve innalzare
la sua cascata di spuma,
e in primavera, amore,
voglio il tuo riso come
il fiore che attendevo,
il fiore azzurro, la rosa
della mia patria sonora.
Rìditela della notte,
del giorno, della luna,
rìditela delle strade
contorte dell’isola,
riditela di questo rozzo
ragazzo che ti ama,
ma quando apro gli occhi
e quando li richiudo,
quando i miei passi vanno,
quando tornano i miei passi,
negami il pane, l’aria,
la luce, la primavera,
ma il tuo sorriso mai,
perché io ne morrei.

Questa lirica risale al soggiorno caprese di Neruda, nei primi anni Cinquanta, soggiorno che ha ispirato il film Il postino, l’ultima opera cinematografica di Massimo Troisi. Le poesie scritte in quel periodo, raccolte ne I versi del capitano, cantano anche l’incontro fra il poeta e Matilde Urrutìa, che restò al suo fianco per oltre vent’anni, fino alla morte di Neruda nel 1973.

E se il sorriso di cui parla Neruda è quello della passione, della tenerezza, della felicità, quello di questa poesia di Cesare Pavese è il suo esatto antipodo: è il sorriso della malinconia e dell’abbandono, di quel vasto Piemonte dell’anima di cui Pavese fu per tutta la vita solitario abitante. Spero per voi che vi commuova

I GATTI LO SAPRANNO

Ancora cadrà la pioggia
sui tuoi dolci selciati,
una pioggia leggera
come un alito o un passo.
Ancora la brezza e l’alba
fioriranno leggere
come sotto il tuo passo,
quando tu rientrerai.
Tra fiori e davanzali
i gatti lo sapranno.
Ci saranno altri giorni,
ci saranno altre voci.
Sorriderai da sola.
I gatti lo sapranno.
Udrai parole antiche,
parole stanche e vane
come i costumi smessi
delle feste di ieri.
Farai gesti anche tu.
Risponderai parole −
viso di primavera,
farai gesti anche tu.
I gatti lo sapranno,
viso di primavera;
e la pioggia leggera,
l’alba color giacinto,
che dilaniano il cuore
di chi piú non ti spera,
sono il triste sorriso
che sorridi da sola.
Ci saranno altri giorni,
altre voci e risvegli.
Soffriremo nell’alba,
viso di primavera.

Concludiamo questa passeggiata ricordando a Foggiani e circonvicini che lunedì 19 alle 17,30, Ubik e la Magna Capitana propongono, sempre sotto l’attenta regia di Antonio Bux, la seconda tappa di «Fuori i poeti», con la presentazione dell’antologia della nuovissima poesia pugliese «I cieli della preistoria». Saranno presenti in biblioteca ben sette fra poete e poeti. Noi ci salutiamo, sperando che la lettura vi abbia regalato qualche sorriso, con una lirica della sublime Antonia Pozzi, cantora che in questo periodo, per i misteriosi flussi della lettura e dell’ispirazione, mi intriga particolarmente.

PAUSA

Mi pareva che questa giornata
senza te
dovesse essere inquieta,
oscura. Invece è colma
di una strana dolcezza, che s’allarga
attraverso le ore –
forse com’è la terra
dopo uno scroscio,
che resta sola nel silenzio a bersi
l’acqua caduta
e a poco a poco
nelle più fonde vene se ne sente
penetrata.

La gioia che ieri fu angoscia,
tempesta –
ora ritorna a brevi
tonfi sul cuore,
come un mare placato:
al mite sole riapparso brillano,
candidi doni,
le conchiglie che l’onda
lasciò sul lido.

Se il sorriso è un pianto evitato, la gioia è spesso un’angoscia risolta. Ci sentiamo a Natale o a Santo Stefano, compagne e compagni di gita. Auguri a voi e alle vostre famiglie. Considerate, vi prego, che sono davvero poche le cose che non migliorino con un sorriso. E nessuna peggiora.

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