Gli eroi: inganno, beatitudine e dannazione

by Enrico Ciccarelli

«Beati quei popoli che non hanno bisogno di eroi» sentenzia Bertold Brecht in una delle citazioni più abusate e fraintese della storia. Perché evidentemente si riferisce a una condizione utopica, un po’ come dire «Beati quegli Stati che non hanno bisogno di leggi» perché i loro cittadini le hanno così profondamente interiorizzate da rispettarle spontaneamente. In realtà avremo sempre bisogno di eroi; ne avranno bisogno in modo particolare i poeti, che hanno iniziato il loro mestiere, alcuni millenni fa, proprio cantando le loro gesta. In principio si celebrano gli eroi che sono sempre tali: Ercole, Sigfrido, Beowulf, Orlando Paladino e Lancillotto del Lago. Prìncipi profetizzati, guerrieri impareggiabili, seduttori irresistibili. Anche quando l’apparenza è di un parvenu, come nel caso di Robin dei Boschi, l’arciere infallibile che rubava ai ricchi per dare ai poveri, si tratta di un nobile spodestato in incognito. E se l’età moderna comincia, letterariamente parlando, con l’antieroe per eccellenza, Alonso Quijano, in arte Don Chisciotte della Mancia, i primi eroi laici sono gli opliti di Leonida alle Termopili: manipolo di coraggiosi (trecento, come gli infelici compagni di Carlo Pisacane secondo Mercantini) chiamati a far fronte a nemici enormemente superiori per numero.

Li canta già Simonide, lirico greco attivo nella seconda metà del VI secolo avanti Cristo e nella prima metà del V. Ecco, da non confondersi con il lapidario epicedio («Straniero, annuncia agli Spartani che qui giaciamo, obbedendo alle loro leggi»), il suo

PER I MORTI DELLE TERMOPILI

«Dei morti alle Termopili
gloriosa la sorte, bella la fine, la tomba un’ara,

invece di pianti, il ricordo, il compianto è lode.
Un tal sudario né ruggine
né il tempo vorace oscurerà.
Questo sacello d’eroi valorosi come abitatrice

 la gloria d’Ellade si prese.

Ne fa fede anche Leonida,
il re di Sparta, che ha lasciato di virtù grande
ornamento e imperitura gloria.»

Si noti l’entusiasta sobrietà del cantore (figura ricca di riferimenti mitici) rispetto alla truculenta americanata del film 300. Una dignità classica che traluce, a un paio di millenni di distanza, nei versi sullo stesso argomento di Costantino Kavafis, aedo omerico che i capricci del fato han fatto nascere in Alessandria d’Egitto nel 1863.

TERMOPILI

Onore a quanti nella loro vita

decisero difese di Termopili.

Mai dal loro dovere essi recedono;

in ogni azione equilibrati e giusti,

con dolore, peraltro, e compassione;

se ricchi, generosi; anche nel poco

generosi, se poveri; solerti

a soccorrere gli altri più che possono,

capaci solo della verità, senza neppure odiare i mentitori.

E di più grande onore sono degni

se prevedono (  molti lo prevedono)

che spunterà da ultimo un Efialte

e i Persiani, alla fine, passeranno.

Sempre capace di costruire cattefrali con pochi mattoni di parole, il grande Kostantinos. Ma nel raffronto fra lui e Simonide possiamo comprendere alcune cose che la modernità ha aggiunto alla figura degli eroi: il loro impegnarsi ben al di là di qualsiasi speranza di vittoria e il fatto che i valori delle Termopili vanno ben al di là del fatto d’arme.

Manca ancora, però, la consapevolezza dell’assoluta casualità dell’eroe. La verità è che è molto difficile dire in anticipo chi sarà un eroe, e ancora più difficile distinguerlo da un folle. Si prenda il presidente ucraino Volydymir Zelen’sky. Un mediocre comico, un attore d’avanspettacolo che la lotteria della democrazia fa assurgere a capo di Stato. Ma anche quello che, quando un nemico strapotente invade con i suoi blindati il territorio dell’Ucraina e gli Stati Uniti gli consigliano di mettersi in salvo perché non possono garantire la sua sicurezza, decide di restare a Kiev, quasi avesse letto l’immortale quartina di Anna Achmatova («No, non sotto un cielo straniero/ al riparo di ali straniere./ Io ero allora con il mio popolo/ là dove il mio popolo per sventura era») Potete pensarla come volete sul conflitto russo-ucraino, ma che quello sia un eroe è fuor di dubbio: proprio  come Salvador Allende, legittimo presidente del Cile, che rifiuta con sdegno la via di fuga dal Palazzo della Moneda che gli offrono i militari golpisti e muore in combattimento.

E che dire di Winston Churchill? Un viziato aristocratico con problemi di alcolismo, celebre più per le sue fulminanti battute che per la sua perizia di Governo, che, nell’ora del supremo periglio della Gran Bretagna, si reca ai Comuni a promettere sangue, sudore e lacrime. Perché forse ha ragione l’aforista che insegna che «gli eroi mediocri sottomettono i loro nemici, gli eroi grandi conquistano se stessi». Senza spoiler, suggerisco sull’argomento il sublime finale del Deserto dei Tartari di Dino Buzzati.

Ma l’eroismo del microcosmo, quello che tutti i giorni ci porta a svegliarci, a inghiottire i bocconi amari, a mettere a tacere la fastidiosa domanda chicacchiomelofafare, è una grande cosa, ma trascura la natura intimamente comunitaria dell’eroismo. Ne parla con la consueta facondia fluviale Pablo Neruda in questo inno a Simon Bolivar, el Libertador, l’eroe dell’indipendenza latinoamericana. È lungo, ma vale la pena.

UN CANTO PER BOLIVAR

Padre nostro che stai nella terra, nell’acqua, nell’aria 
di tutta la nostra estesa latitudine silenziosa, 
tutto porta il tuo nome, padre, nella nostra dimora: 
il tuo cognome la canna alza alla dolcezza, 
lo stagno bolivar ha un bagliore bolivar, 
l’uccello bolivar sul vulcano bolivar, 
la patata, il salnitro, le ombre speciali, 
le correnti, le venature di pietra fosforica, 
tutto ciò che è nostro viene dalla tua vita spenta, 
la tua eredità furono fiumi, pianure, campanili, 
la tua eredità è il nostro pane di ogni giorno, padre.
Il tuo piccolo cadavere di capitano coraggioso 
ha esteso nell’immensità la sua metallica forma, 
all’improvviso escono le tue dita tra la neve 
e l’australe pescatore tira fuori alla luce prontamente 
il tuo sorriso, la tua voce palpitante nelle reti.
Di che colore la rosa che alziamo vicino alla tua anima? 
Rossa sarà la rosa che ricordi il tuo passo. 
Come saranno le mani che tocchino la tua cenere? 
Rosse saranno le mani che nascono dalla tua cenere. 
E come è il seme del tuo cuore morto? 
È rosso il seme del tuo cuore vivo.
Per questo motivo è oggi la ronda di mani vicino a te. 
Insieme alla mia mano c’è nè un’altra e c’è nè un’altra insieme a lei, 
ed altra ancora, fino alla fine del continente oscuro. 
E viene anche un’altra mano che tu non conoscesti allora, 
Bolivar, a stringere la tua: 
da Teruel, da Madrid, dal Jarama, dall’Ebro, 
della prigione, dell’aria, dei morti della Spagna 
arriva questa mano rossa che è figlia della tua.
Capitano, combattente, dove una bocca 
grida libertà, dove un udito ascolta, 
dove un soldato rosso rompe una fronte bruna, 
dove un alloro di liberi germoglia, dove una nuova 
bandiera si adorna col sangue della nostra insigne aurora, 
Bolivar, capitano, si scorge il tuo viso. 
Un’altra volta tra polvere da sparo e fumo la tua spada sta nascendo. 
Un’altra volta la tua bandiera con sangue si è ricamata. 
I malvagi attaccano il tuo seme di nuovo, 
inchiodato in un’altra croce sta il figlio dell’uomo.
Ma verso la speranza ci conduce la tua ombra, 
l’alloro e la luce del tuo esercito rosso 
attraverso la notte dell’America col tuo sguardo guarda. 
I tuoi occhi che vigilano oltre i mari, 
oltre i popoli oppressi e feriti, 
oltre le nere città incendiate, 
la tua voce nasce di nuova, un’altra volta la tua mano nasce: 
il tuo esercito difende le bandiere sacre: 
la Libertà scuote le campane sanguinanti, 
ed un suono terribile di dolore precede 
l’aurora arrossita dal sangue dell’uomo. 
Liberatore, un mondo di pace nacque nelle tue braccia. 
La pace, il pane, il grano del tuo sangue nacquero, 
dal nostro giovane sangue venuto dal tuo sangue 
usciranno pace, pane e grano per il mondo che faremo.
Io conobbi Bolivar una lunga mattina, 
a Madrid, nella bocca del Quinto Reggimento, 
Padre, gli dissi, sei o non sei o chi sei? 
E guardando il Quartiere della Montaña, disse: 
“Mi sveglio ogni cento anni quando si sveglia il popolo.”

«Despierto cada cien años, cuando despierta el pueblo». Che meraviglia! Ma dopo tanta retorica eroistica, non sarà male concludere con una brevissima, icastica, formidabile lirica di Reinaldo Ferreira, poeta, cineasta, giornalista portoghese (operò soprattutto in Mozambico) morto a 37 anni di cancro al polmone. Questa è la sua

RICETTA PER FARE UN EROE

Prendere un uomo
fatto di niente, come noi,
e di grandezza naturale.
Impregnargli la carne,
lentamente,

D’una certezza acuta, irrazionale,
intensa come l’odio o la fame.
Poi, quasi alla fine,
agitare uno stendardo
e suonare una tromba…

Si serve morto.

Gli eroi (nei fumetti, nelle favole, nella storia)nascono per farci sognare. Pregate ci sia sempre concessa la somma grazia di saper distinguere i sogni dagli incubi.

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