Il corrimano per il futuro. La nostalgia da Carducci a De Andrè

by Enrico Ciccarelli

Buona domenica, amiche e amici carissimi. L’approssimarsi del mio ingresso ufficiale nella terza età, che collide in modo stridente con la mia ottimistica autopercezione di avere fra i quindici e i vent’anni, aumenta in modo esponenziale la quantità di ricordi, volti e parole che mi hanno lasciato, con la stessa geometrica ferocia con cui riduce il campo delle persone e delle situazioni che potrò incontrare. Eppure è un abbaglio credere che la nostalgia, l’argomento della nostra passeggiata poetica di oggi, sia un affare da vecchi. Il «dolore del ritorno» (è questo l’etimo greco della parola) è in realtà condizione umana perenne, legata com’è alla memoria e all’immaginazione, o per meglio dire alla memoria immaginata.

Detto in altri termini, quel sentimento malinconico, talvolta rabbioso, sempre spiazzante che proviamo per il passato non dipende affatto da quanto ne abbiamo vissuto. L’oracolo Pessoa ci avverte, al contrario, che «Non c’è nostalgia più dolorosa di quella delle cose che non sono mai avvenute». È un sentimento che ha poco a che fare con i ricordi, e ancor meno con la realtà storica, a causa del «profumo del ricordo, che cambia in meglio», di cui parla Guccini. Perché in realtà è di ciò che fummo o che non abbiamo avuto il coraggio di essere che coltiviamo il rimpianto. Ed è cosa che può avvenire a otto come a ottant’anni.

Le poesie sulla nostalgia sono innumeri. Ma la mia preferita, per quanto troppo lunga per questi tempi istantanei ed effimeri, è stata scritta nel 1885, dopo un sobbollimento meditativo di circa un decennio, da un signore che aveva allora cinquant’anni, uno di quei nomi che a scuola ci hanno insegnato a odiare con accuratezza, perseguitandoci con corvèe mnemoniche, obblighi di riassunti e parafrasi, esaltazioni retoriche di cui ci sfuggiva il senso. Sto parlando di Giosuè Alessandro Giuseppe Carducci, primo italiano a vincere il Nobel per la letteratura, e della sua

DAVANTI SAN GUIDO

I cipressi che a Bólgheri alti e schietti
Van da San Guido in duplice filar,
Quasi in corsa giganti giovinetti
Mi balzarono incontro e mi guardâr.

Mi riconobbero, e – Ben torni omai –
Bisbigliaron vèr’ me co ’l capo chino –
Perché non scendi? Perché non ristai?
Fresca è la sera e a te noto il cammino.

Oh sièditi a le nostre ombre odorate
Ove soffia dal mare il maestrale:
Ira non ti serbiam de le sassate
Tue d’una volta: oh, non facean già male!

Nidi portiamo ancor di rusignoli:
Deh perché fuggi rapido cosí?
Le passere la sera intreccian voli
A noi d’intorno ancora. Oh resta qui! –

– Bei cipressetti, cipressetti miei,
Fedeli amici d’un tempo migliore,
Oh di che cuor con voi mi resterei –
Guardando io rispondeva – oh di che cuore!

Ma, cipressetti miei, lasciatem’ ire:
Or non è piú quel tempo e quell’età.
Se voi sapeste!… via, non fo per dire,
Ma oggi sono una celebrità.

E so legger di greco e di latino,
E scrivo e scrivo, e ho molte altre virtú:
Non son piú, cipressetti, un birichino,
E sassi in specie non ne tiro piú.

E massime a le piante. – Un mormorio
Pe’ dubitanti vertici ondeggiò,
E il dí cadente con un ghigno pio
Tra i verdi cupi roseo brillò.

Intesi allora che i cipressi e il sole
Una gentil pietade avean di me,
E presto il mormorio si fe’ parole:
– Ben lo sappiamo: un pover uom tu se’.

Ben lo sappiamo, e il vento ce lo disse
Che rapisce de gli uomini i sospir,
Come dentro al tuo petto eterne risse
Ardon che tu né sai né puoi lenir.

A le querce ed a noi qui puoi contare
L’umana tua tristezza e il vostro duol.
Vedi come pacato e azzurro è il mare,
Come ridente a lui discende il sol!

E come questo occaso è pien di voli,
Com’è allegro de’ passeri il garrire!
A notte canteranno i rusignoli:
Rimanti, e i rei fantasmi oh non seguire;

I rei fantasmi che da’ fondi neri
De i cuor vostri battuti dal pensier
Guizzan come da i vostri cimiteri
Putride fiamme innanzi al passegger.

Rimanti; e noi, dimani, a mezzo il giorno,
Che de le grandi querce a l’ombra stan
Ammusando i cavalli e intorno intorno
Tutto è silenzio ne l’ardente pian,

Ti canteremo noi cipressi i cori
Che vanno eterni fra la terra e il cielo:
Da quegli olmi le ninfe usciran fuori
Te ventilando co ’l lor bianco velo;

E Pan l’eterno che su l’erme alture
A quell’ora e ne i pian solingo va
Il dissidio, o mortal, de le tue cure
Ne la diva armonia sommergerà. –

Ed io – Lontano, oltre Apennin, m’aspetta
La Titti – rispondea – ; lasciatem’ ire.
È la Titti come una passeretta,
Ma non ha penne per il suo vestire.

E mangia altro che bacche di cipresso;
Né io sono per anche un manzoniano
Che tiri quattro paghe per il lesso.
Addio cipressi! addio, dolce mio piano! –

– Che vuoi che diciam dunque al cimitero
Dove la nonna tua sepolta sta? –
E fuggíano, e pareano un corteo nero
Che brontolando in fretta in fretta va.

Di cima al poggio allor, dal cimitero,
Giú de’ cipressi per la verde via,
Alta, solenne, vestita di nero
Parvemi riveder nonna Lucia;

La signora Lucia, da la cui bocca,
Tra l’ondeggiar de i candidi capelli,
La favella toscana, ch’è sí sciocca
Nel manzonismo de gli stenterelli,

Canora discendea, co ’l mesto accento
De la Versilia che nel cuor mi sta,
Come da un sirventese del trecento,
Pieno di forza e di soavità.

O nonna, o nonna! deh com’era bella
Quand’ero bimbo! ditemela ancor,
Ditela a quest’uom savio la novella
Di lei che cerca il suo perduto amor!

– Sette paia di scarpe ho consumate
Di tutto ferro per te ritrovare:
Sette verghe di ferro ho logorate
Per appoggiarmi nel fatale andare:

Sette fiasche di lacrime ho colmate,
Sette lunghi anni, di lacrime amare:
Tu dormi a le mie grida disperate,
E il gallo canta, e non ti vuoi svegliare. –

Deh come bella, o nonna, e come vera
È la novella ancor! Proprio cosí.
E quello che cercai mattina e sera
Tanti e tanti anni in vano, è forse qui,

Sotto questi cipressi, ove non spero
Ove non penso di posarmi piú:
Forse, nonna, è nel vostro cimitero
Tra quegli altri cipressi ermo là su.

Ansimando fuggía la vaporiera
Mentr’io cosí piangeva entro il mio cuore;
E di polledri una leggiadra schiera
Annitrendo correa lieta al rumore.

Ma un asin bigio, rosicchiando un cardo
Rosso e turchino, non si scomodò:
Tutto quel chiasso ei non degnò d’un guardo
E a brucar serio e lento seguitò.

Lo so, è lunghetta, tanto da mettere a dura prova la gentile pazienza con cui seguite queste settimanali elucubrazioni. E poi con quelle metriche desuete, quei «cor, filar, amor», che hanno un che di fastidioso e infantile! Per tacere dei contenuti pauperistici, dell’elogio della vita semplice a detrimento della cultura e dell’erudizione. Che poi appartiene alla penna di uno che studiò con ferocia di autodidatta per giungere a traguardi che la condizione sociale della sua famiglia non gli avrebbe consentito di raggiungere. Un massone patriota, fervente repubblicano irto di contraddizioni e innamorato, forse non platonicamente, della Regina Margherita, cantore di un Risorgimento inattendibile e oleografico, ma versificatore potente come pochi, con versi che –benché spesso sembrino fanfare– hanno una potenza impressiva davvero notevole.

Può darsi che questa poesia sulla nostalgia mi sia venuta in mente per la nostalgia che ho del busto di Carducci che mio padre teneva in bella mostra sulla sua libreria, o per la complice fierezza con cui mi recitava l’Inno a Satana o il ça ira, o l’inizio dell’incompiuta Battaglia di Legnano («squillarono le trombe a parlamento, che non anco risurto era il palagio…»). Come che sia, gli otto versi che cominciano con «Sette paia di scarpe ho consumate» sono secondo me un intero e struggente poema in pillole.

Fra le altre liriche che vi propongo nel poco spazio rimasto a disposizione, trovo interessante e in controtendenza questa poesia della grandissima Alda Merini. La nostalgia che ci riguarda un po’ tutti è quella per la nostra infanzia, per i nostri genitori. Ma c’è anche quella che una madre può avere per una figlia fattasi lontana.

TU TE NE SEI ANDATA

Tu te ne sei andata
hai lasciato dietro di te
il chiaro profumo dell’ombra,
o fiore di questo mio corpo
o specie martoriata di figlia,
tu te ne sei andata
uno spazio di vento
che ha indurito il mio cuore.

Una nostalgia più tradizionale, ma assai intensa, è quella cui dà voce in questa lirica Leonardo Sinisgalli, il «poeta ingegnere», di cui parleremo più diffusamente in un’altra occasione.

ERI DRITTA E FELICE

Eri dritta e felice
sulla porta che il vento
apriva alla campagna.
Intrisa di luce
stavi ferma nel giorno,
al tempo delle vespe d’oro
quando al sambuco
si fanno dolci le midolla.
Allora s’andava scalzi
per i fossi, si misurava l’ardore
del sole dalle impronte
lasciate sui sassi.

Concludo, riscusandomi per la lunghezza, invitandovi a seguire il consiglio di Faber: aspettate domani, per avere nostalgia. Lasciate perdere la paccottiglia dei revival, del vintage, della nostalgia canaglia e dell’intima insensatezza di un mondo che venera ogni forma di passato purché possa continuare a ignorarlo e falsificarlo. La nostalgia è solo il corrimano grazie al quale addentrarsi senza paura nel futuro (la parola stranissima di cui parla l’eccelsa Szymborska, sottolineando che non si è ancora finito di pronunciarla ed è già nel passato). Il domani ci tiene compagnia in tutti i nostri ieri. Per questo non finisce mai di attenderci, né di farsi attendere. Buona domenica, con tutto il cuore.

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