Il destino (e la beffa) delle parole. Indagine poetica sul perdono

by Enrico Ciccarelli

Il destino delle parole è dire molto con pochissimo, racchiudere in alcuni segni grafici, in alternanze di un pugno di vocali e consonanti, concetti e realtà smisurate. Le otto lettere di galassia racchiudono miriadi di stelle, le quattro di Nilo una via d’acqua di migliaia di chilometri, le cinque di morte e di amore misteri insondabili, e così via. E spesso le parole irridono in modo beffardo i cercatori di senso: parole omofone che abbracciano significati diversissimi, che permettono alla parola scopa di essere sia un gioco di carte che una ramazza di saggina che una triviale descrizione dell’atto di accoppiarsi. Lo stesso vale per termini omografi come pèsca e pésca, o àncora e ancòra, visto che in Italiano si accentano solo le parole tronche.  Accade così che le persone che si macchiano di certe colpe gravissime pèrdono ogni speranza di perdòno, con una sdrucciola che è sinonimo di dannazione e una piana che lo è di resurrezione.

Già, ma cos’è il perdono? I poeti ce ne consegnano rade definizioni: è attribuita ad Alexander Pope, titano della poesia inglese della prima metà del Settecento, la massima «errare è umano, perdonare divino», mentre si deve a William Blake, protagonista dell’altra metà di quel secolo, l’aforisma secondo cui «È più facile perdonare un nemico che un amico».

Il perdono è per sua natura smisurato: le evangeliche «settanta volte sette» sono una metafora dell’infinito, ed è un atto di radicale cesura: non può essere ritirato, e sotto certi aspetti nemmeno rammemorato, proprio perché è destinato a chiudere in perpetuo un torto o una controversia. Sarebbe un ben misero perdono quello che tornasse continuamente in ballo, magari a motivare richieste di gratitudine. Per questo Jorge Luis Borges ha scritto versi memorabili sull’argomento, in una singolare lirica intitolata «Frammenti di un Vangelo apocrifo», che è una personale e folgorante rivisitazione del Discorso delle Beatitudini (si trova in Elogio dell’ombra). Contiene il distico

Io non vi parlo di vendette, né di perdoni.

Dimenticare è l’unica vendetta e l’unico perdono.

Geniale, no? Perdono e vendetta come due facce della stessa medaglia. Idea dura da digerirsi, perché noi crediamo soprattutto al perdonare come migliore strada per essere perdonati, come insegna la preghiera fondamentale della religione cristiana.

Per questo è difficile che i poeti della nostra tradizione parlino di perdoni concessi, preferendo concentrarsi sui perdoni richiesti o attesi. Così Anna Achmatova, con Marina Cvetaeva la voce femminile più alta della poesia russa del Novecento, in una dolcissima poesia giovanile. 

Poeta (niente di meloniano; lei voleva essere chiamata così) di assoluta consapevolezza e padronanza, strenua ammiratrice di Dante Alighieri, Achmatova fu venerata in vita e oltre, al punto che il potere sovietico, dopo averla espulsa dall’Unione degli Scrittori nel 1946, ve la riammise nel 1955, sull’onda del disgelo kruscioviano.

La sua biografia fu di ferro (marito fucilato sotto Lenin e figlio deportato in Siberia durante le purghe staliniane) e indirizzò il suo talento verso opere durissime, epiche e meravigliose come il Poema senza eroe. Ma prima che giungesse la stagione dei lutti e delle lacrime, la sua poetica aveva la delicatezza eccelsa che possiamo trovare in questa poesia scritta nel 1915, a ventisei anni.

HAI TARDATO MOLTI ANNI

Distesa e gialla la luce serale,

dolce fresco d’aprile.

Hai tardato molti anni,

pure io ti accolgo felice.

Siedi qui, più vicino,

guarda con occhi allegri:

ecco il quaderno azzurro

coi miei versi di bimba.

Perdona se vissi in pena,

e se poco ho gioito del sole.

Perdona, perdona quei troppi

scambiati per te.

Meno privato e più cosmico lo sterminato Fernando Pessoa, che nel 1928 (il 10 dicembre, ci informa lui stesso), scrive

HO PENA DELLE STELLE

Ho pena delle stelle  
che brillano da tanto tempo,  
da tanto tempo…            
Ho pena delle stelle.               

Non ci sarà una stanchezza     
delle cose,       
di tutte le cose,            
come delle gambe o di un braccio?

Una stanchezza di esistere,          
di essere,        
solo di essere,
l’esser triste lume o un sorriso…

Non ci sarà dunque,          
per le cose che sono,   
non la morte, bens             ì
un’altra specie di fine,    
o una grande ragione:          
qualcosa così,
come un perdono?

Sarà questo, il perdono? Un’altra specie di fine, una liberazione dalle ansie, dalle angosce, dal logorio del vivere. Chissà. Ma forse, più che a perdonare le altrui colpe, più che a chiedere clemenza ad altri per le nostre, c’è un perdono che noi dobbiamo a noi stessi. Così come è detto in questa quartina che trovo eccelsa. La splendida persona che me l’ha fatta conoscere sostiene che è di Emily Dickinson, e benché non conosca il vasto suo canzoniere tanto da potervelo dare per certo, preferisco fidarmi.

UN GIORNO MI PERDONERO’

Un giorno mi perdonerò.
Del male che mi sono fatta.
Del male che mi sono fatta fare.
E mi stringerò così forte da non lasciarmi più.

È un ottimo consiglio, amiche ed amici miei. Perdoniamo, perdoniamoci. Non so dirvi, non posso, se siano perdonabili le ottuse malvagità, le odiose arroganze, le penose stupidità che troppe volte incontriamo e di cui troppe volte siamo autori. So che ci sono cose e persone che sfasciano e sfruttano e cose e persone che donano e aggiustano.  Mi auguro e vi auguro di fare sempre parte della seconda categoria. Buona domenica.

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