Il Dio del Getsemani (in morte di D.B.)

by Enrico Ciccarelli

Queste festività natalizie sono state per me marchiate in modo indelebile dalla scomparsa repentina e inattesa di un ragazzo di 22 anni, congiunto stretto di persone a me carissime. Lo conoscevo poco, lo avrò visto un paio di volte, direi con Faber che era per me quasi da immaginare, tanto in fretta l’ho visto passare da un balcone a un segreto più in là. Ma voi esseri umani che leggete sapete che non c’è bisogno di una conoscenza diretta per vivere l’angoscia di una fine che è stata particolarmente amara e crudele per chi rimane, per un padre e una madre cui è stato strappato l’affetto più prezioso, per una vasta famiglia che vedeva in lui parte del suo futuro, per l’innaturale mostruosità di una storia che si interrompe neanche finita la prefazione, e che per giunta lo fa mentre tutto intorno si celebra, a volte con intensità, a volte con frivolezza, la Festa della Speranza, la suprema fra tutte le Nascite, il compimento della Profezia e quella dolce ragazzina nelle cui piccole mani fu messo il destino della Creazione e rispose semplicemente “Eccomi, sono pronta”.

Una ferocia senza motivo, che inevitabilmente rende più urgente e carica di collera la domanda “perché?” che ogni credente rivolge di tanto in tanto a Dio. Gli atei, beati loro, non hanno di questi problemi: “Dio ha l’unica scusa di non esistere” sentenziano di fronte alle atrocità del mondo. Ma chi crede non può farne a meno, non può non chiederselo e chiederlo con le mascelle serrate e i pugni stretti fino a sbiancare le nocche. Perché? In nome di che? Di quale astruso progetto, di quale inconoscibile mistero? Non sarà certo chi vive un dolore -indiretto, ma non per questo meno acuto- a dare risposte. Però gli avvenimenti successivi mi hanno fatto capire che guardavo nella direzione sbagliata; che potevo imparare qualcosa non tanto dalla morte di questo giovane uomo, ma dalla sua vita.

Perché le cose che si dicevano di lui, la perdita che di lui si lamentava andavano un po’ oltre l’ovvio concetto che dei morti si dica solo bene; c’era qualcosa in più del cordoglio per la morte di un giovane (cordoglio istintivo, universale, partecipe, che chiunque abbia un figlio non può contemplare senza rabbrividire). In quelle parole c’era il dolore per quel giovane, per quell’amico, per quel figlio o nipote o cugino. Il dolore per la sua vita, ben oltre il dolore per la sua morte. Ecco, sarà stata la speciale qualità della sua famiglia (che, benché devastata, ha combattuto con valore l’irruzione del caos) sarà stata -soprattutto- la sincerità disinteressata e commovente dei suoi amici, ma il lascito della sua vita troppo breve mi è parso superiore in quantità e qualità ad altre durate il doppio, il triplo, il quadruplo. Perché il problema non è il tempo  che hai (che nessuno sa a quanto ammonti) ma cosa te ne fai.

Di lui ho sentito dire in chiesa “Il tuo tempo erano gli altri”, e questo, oltre a essere il più bell’elogio che abbia mai ascoltato, mi pare anche la chiave di tutto. Perché non vorrei che pensaste che sia stato un superuomo, un genio di creatività, il progettista del tunnel sotto la Manica. E’ stato (o dovrei dire è?) uno splendido ragazzo normale, pieno di vita e dall’allegria contagiosa, un figlio innamorato dei suoi genitori e delle loro famiglie, uno studente diligente e preparato, un tifoso da cori e bandiere, uno che ci sapeva fare con le ragazze e probabilmente moriva dietro all’unica che non se lo filava. Un ragazzo con l’unico superpotere del sorriso e della tenerezza, possessore di quel talento misterioso che si chiama empatia.

Basta al dolore, basta al rimpianto? No, nulla può bastare. Ma è sufficiente a comprendere che non c’è motivo di prendersela con Dio, anche perché -lo dico molto umilmente- quelle storie sul “non cade foglia che Dio non voglia” le ho sempre considerate trombonate smargiasse del Suo Ufficio Marketing, e quelle che ha pronunciato Lui dicono altro.

Lui, il ragazzo, non si è limitato a trascorrere in fretta come una meteora, a brillare per poco come i palloncini e le lanterne che dai diversi luoghi della sua vita si sono levate in cielo a ricordarlo (meraviglia!) nella notte di San Silvestro. Lui ha lasciato dei semi, come la ginestra di cui parla quel tale, la cui umiltà delicata è la sola cosa che si salva dalla cieca e scatenata furia del vulcano. Semi che continuano a germogliare nel ricordo di chi lo ha conosciuto, ma anche di chi non lo conobbe affatto, come Benedetta De Falco, la brava collega di Repubblica che ha scritto sulle sue esequie un articolo di così accurata sensibilità che vorremmo i nostri giornali ne fossero pieni sempre.

E’ magra consolazione, benché del tutto fondata, che gli sia stato risparmiato il male a venire. Ma secondo me non è stato un prescelto o una vittima di Dio; è stato, come tutti dovremmo essere, come è Sua volontà che noi siamo, un continuatore dell’opera Sua. Esistiamo per questo, per questo ha posto l’Albero nel Giardino sapendo che ne avremmo mangiato il frutto. Perché voleva, vuole che siamo non i Suoi scemi adoranti, ma i Suoi imperfetti, a volte insopportabili, collaboratori, gli sgangherati e troppo spesso irresponsabili coautori del Creato. Il Dio  che mi pare di intravvedere nella vicenda amara e splendida di questo giovane uomo non è quello del Sinai, ma quello del Getsemani: il Dio che vacilla, che prega, che ha paura. Perché se è vera anche solo una parte di quello che abbiamo ascoltato di lui, quel ragazzo avrebbe vegliato insieme al Messia. Gli sia lieve la terra.

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