Il patriarcato all’assedio di Fort Apache. Perché riemerge in modo sguaiato la cultura dello stupro

by Enrico Ciccarelli

Credo sia utile premettere che non so e non pretendo di sapere cosa sia successo la notte del 18 maggio ultimo scorso nella casa milanese del presidente del Senato Ignazio La Russa. Non so e non pretendo di sapere se effettivamente il signor Leonardo Apache, figlio diciannovenne della seconda carica dello Stato abbia o meno stuprato, con l’eventuale concorso di un amico, una ventiduenne di sua conoscenza (avevano frequentato lo stesso Liceo).

A stabilirlo dovrà essere, come per il figlio di Grillo, come per il 32enne nigeriano arrestato nel Lazio, un Tribunale della Repubblica, sulla base di indagini, testimonianze e prove. La presunzione di non colpevolezza dell’imputato fino a sentenza definitiva, prevista dall’art, 48 della Costituzione, vale per tutti, a partire da coloro che per i motivi più svariati possono non esserci simpatici (e ammetto che i figli di papà non sono nella top ten delle mie simpatie).

Detto questo, colpisce lo spaventoso baratro culturale che la vicenda sta disegnando: a leggere gli argomenti e le tesi degli innocentisti, sembra che ventisette anni siano passati invano. Fu solo nel 1996, infatti, e precisamente il 15 febbraio, che venne promulgata la legge con la quale la violenza sessuale cessava di essere un reato contro la pubblica morale (come era nei Codici Zanardelli e Rocco) e diventava un reato contro la persona.

Perché è così importante? Perché fino a quella data la cultura del patriarcato aveva gioco facile, nei processi per stupro, a spostare la responsabilità dall’imputato alla vittima: perché non vi era nessun attentato alla pubblica morale nell’abusare di una donna di facili costumi o di una prostituta. Era quindi consentito, in sede dibattimentale, che gli avvocati della difesa non interrogassero la vittima solo sulla dinamica dei fatti oggetto del processo, ma sui loro costumi, sulla loro eventuale promiscuità, sul loro abbigliamento e così via.

Fu una legge  che vide la luce nella legislatura più breve della storia d’Italia, segnata prima dall’inatteso trionfo di Berlusconi su Occhetto e poi dal ribaltone leghista di Umberto Bossi, con conseguente nascita del Governo Dini. Fu portato avanti da una lobby trasversale al femminile, di cui facevano parte autorevoli deputate e senatrici di tutto l’arco parlamentare, come si conviene a una battaglia di civiltà.

In poco più di un quarto di secolo, invece di andare avanti siamo tornati indietro? Si direbbe proprio di sì: perché gli «argomenti» usati contro la denunciante e la sua famiglia sono assolutamente identici a quelli degli avvocati del collegio difensivo immortalati nel documentario «Processo per stupro», su un fatto di cronaca avvenuto dalle parti di Latina. Il documentario è del 1979, ed è una sinossi esemplare dell’ideologia del «se l’è cercata», così come esemplare dello Stato di diritto e delle conquiste di civiltà è il lavoro della gagliarda Tina Lagostena Bassi, che in quel processo difendeva come parte civile le ragioni della vittima.

Naturalmente, i rilievi sono spesso fondati su una pregiudiziale misconoscenza dei fatti. Si addebita alla ragazza, per esempio, l’essere andata a casa del suo presunto stupratore, sancendo ex cathedra che questo sarebbe stato un manifesto segno di disponibilità sessuale. Peccato che la ragazza sostenga di non ricordare affatto di esserci arrivata, e di non avere memoria di quanto successo fra il momento in cui Leonardo le offre l’ultimo cocktail in discoteca e quello in cui lei si sveglia nel letto di casa sua completamente nuda. Mente? È possibile. Ma è quello che lei dice immediatamente dopo il suo risveglio all’amica.

Anche l’argomento dei giorni trascorsi tra il fatto e la denuncia poggia su una falsa ricostruzione: la ragazza chiede immediatamente aiuto, si reca immediatamente al Centro Antiviolenza della Clinica Mangiagalli, dove le riscontrano lesioni «compatibili con violenza sessuale» (occhio! Non dicono che è stata stuprata, dicono che potrebbe esserlo stata) e successivamente predispone con l’avvocato la denuncia.

Come sanno i miei amici avvocati, si tratta in realtà di una querela irrevocabile, perché la violenza sessuale può essere perseguita d’ufficio solo in casi specifici, fra cui questa fattispecie non rientra. È un atto rilevante, che comporta una significativa assunzione di responsabilità e può determinare conseguenze piuttosto pesanti per chi lo produce. Questo è tanto più vero se la persona che vuoi far processare e punire appartiene a una delle famiglie più in vista di Milano e ha un padre che ricopre un ruolo secondo solo a quello del Capo dello Stato. Del tutto normale, quindi, che prima di compierlo la ventiduenne e il suo avvocato abbiano dovuto fare una valutazione approfondita della solidità del caso, della credibilità della dinamica, dell’affidabilità delle testimonianze.

Ma l’aspetto a mio parere più grottesco dell’intera vicenda è quella che fin dall’inizio è stata la «prova regina» dell’innocenza di Apache, la «pistola fumante» a carico della vittima. La ragazza ha «ammesso» di avere fatto uso di cocaina, e la sua cartella clinica, provvidamente fornita ai giornali in nome della privacy, unitamente alla chat con le sue amiche, attesta che avrebbe assunto anche cannabis e alcool e calmanti di vario genere.

Anche il maschilismo deve adeguarsi ai tempi: la gonna troppo corta e le chiacchiere di paese non fanno più tanto effetto: meglio la droga, quindi, soprattutto quella cocaina che il virgulto La Russa –ne siamo certi- conosce solo per sentito dire. Quindi se l’è cercata perché –direbbe Facci– si era «fatta». E qui però c’è una non lieve contraddizione.

Il nostro codice penale, infatti, all’articolo 609 bis, che definisce la violenza sessuale, dice testualmente:

«Chiunque, con violenza o minaccia o mediante uso di autorità costringe taluno a compiere o subire atti sessuali è punito con la reclusione da sei a dodici anni,

«Alla stessa pena soggiace chi induce taluno a compiere o subire atti sessuali:

  1. abusando delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa al momento del fatto;
  2. traendo in inganno la persona offesa per essersi il colpevole sostituito ad altra persona.»

Serve un disegno? La ragazza è una tossica, una drogata marcia, una che ha perso il ben dell’intelletto? Ergo, era al momento del fatto in condizioni di inferiorità fisica e psichica. Avere dei rapporti sessuali con lei, oltre a essere cosa miseranda e indegna di un uomo vero, è stupro. Fossimo in Leonardo Apache, nel suo amico-collaboratore, in suo padre, faremmo carte false per dimostrare che la ragazza era casomai un po’ alticcia e un po’ su di giri, ma perfettamente lucida. Perché possiamo tutti convenire che quella ragazza farebbe un favore a se stessa se sniffasse, aspirasse o inghiottisse meno merda. Ma questo –proprio come le minigonne del buon tempo antico- non autorizza nessuno a usarla come intrattenimento sessuale, perché manca il requisito del libero consenso. Se poi volete trasferirvi nel 1995 (o magari nel 1980, quando c’erano ancora il delitto d’onore e il matrimonio riparatore) fate pure. Ma non pretendiate di trascinarvici con voi.

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