La mafia, il Gino Lisa e la Gazzetta del Mezzogiorno

by Enrico Ciccarelli

Nel giorno in cui si invera la facile profezia dello scioglimento per mafia del Comune di Foggia, penso sia il caso di usare la rabbia e la vergogna di questo esito tanto prevedibile quanto drammatico per qualche riflessione che ci aiuti a capire meglio e a ricominciare meglio. Come direbbe De Gregori, la Storia siamo noi, nessuno si senta escluso. Non offriamoci quindi la facile scorciatoia di pensare che una banda di criminali venuti dal nulla e infiltratisi nella politica e nelle istituzioni abbiano macchiato la coscienza pura e immacolata della nostra città.

Purtroppo, prima di farsi minaccia organizzata e reale, visibile e quotidiana, la mafia e la mafiosità, che sono anche e soprattutto un fenomeno culturale, erano profondamente incistate nel tessuto socio-economico e antropologico delle nostre zone, come in altre del Mezzogiorno d’Italia. Non per stereotipo lombrosiano, ma per vicenda storica antica, che possiamo far ascendere addirittura alla Repubblica Partenopea del 1799.

Mafia, camorra e ‘ndrangheta, nelle loro origini, sono una delle tante società segrete nate per difesa. Difesa dall’assolutismo regio, dall’oscurantismo ecclesiastico, dai soprusi e dagli abusi dei nobili. Ma mentre realtà come la Carboneria e la Frammassoneria si sono evolute accompagnando le rivoluzioni borghesi e rovesciando gli assolutismi, le “onorate società” sono rimaste vincolate alla chiusura, alla reciproca protezione dei membri, a quella “cosca”, il frutto del carciofo le cui foglie dure e spinate si stringono a protezione del tenero cuore centrale.

La chiusura, la conservazione delle appartenenze e degli atavismi, una struttura familistica o per clan tetragona e resistente al nuovo sono caratteristiche portanti della subcultura mafiosa. Gli investigatori americani e lo stesso Giovanni Falcone rimasero molto sorpresi di scoprire che le potentissime famiglie mafiose di New York, Chicago e Las Vegas dipendevano organicamente da quelle dei piccoli paesi dell’entroterra siciliano. Quando Lucky Luciano viene ad aiutare le truppe Usa nel loro sbarco in Sicilia, lo fa non come capo dei capi, ma come devoto affiliato.
Le società criminali, figlie come sono di una cultura arcaica non capiscono e non tollerano la democrazia, proprio come i fondamentalisti di Boko Haram. Ci convivono quando è necessario o lucrativo (come con Vito Ciancimino durante il Sacco di Palermo o durante la cosiddetta “trattativa”), la sfidano apertamente quando possono, per lo più la svuotano e la ignorano. Dalle vele di Scampia allo Zen di Palermo fino ai degradati quartieri settecenteschi e all’Onpi di Foggia, le regole di ingaggio sono le stesse: fare in modo che lo Stato giri il più possibile alla larga, non fare cose che ne richiamino l’attenzione in modo troppo clamoroso, sostituire al potere di deterrenza delle leggi quello dell’intimidazione e della violenza.
Il nemico che la mafia teme di più non è Carlo Alberto Dalla Chiesa, il cui cadavere di eroe dello Stato fu solo un trofeo da esibire nella sanguinosissima guerra di cosche degli anni Ottanta; è François Arouet, detto Voltaire. Il nemico delle cosche è l’idea illuminista, e poi hegeliana e poi positivista, che il mondo possa essere migliorato dalla libertà, dal contrasto, dalla dialettica, non dalla plumbea assolutezza del dogma, non dal dominio della paura. Per questo la lunga fuga intrapresa dal Mezzogiorno d’Italia rispetto alla storia, prima con il suffragio di massa alla monarchia nel 1946 e più di recente con i rigurgiti qualunquisti e populisti dei neoborbonici e del Movimento Cinquestelle ha arato e dissodato (certo inconsapevolmente e incolpevolmente) i campi in cui ha preso dimora la malapianta mafiosa.
La mafia inquina e minaccia la politica? Risolviamo indebolendo la politica e premiandone le parti peggiori e più degenerate. La mafia è il prevalere degli interessi particolari su quelli generali? E noi non perdiamo occasione per cavalcare ogni tipo di battaglia localistica, restringendo e rendendo asfittica la nostra identità anziché allargarla. Rendendo sempre più piccolo e minuscolo il “gregge” a cui apparteniamo, abbiamo molto facilitato il compito del lupo mafioso.
Agevolato anche da costrutti mitologici diffusi, in cui il senso della realtà è considerato un optional, quando non un ostacolo. Vogliamo parlare dei ventimila morti immaginari dei bombardamenti del 1943 (il serio tentativo di censimento fatto dal polo bibliomuseale della Magna Capitana ne ha accertati fino il 10%) o dei sacri furori relativi al “Gino Lisa”, che invece di essere trattato per quello che è, cioè una infrastruttura di trasporto da inserire in una intermodalità di sistema (con il porto di Manfredonia, con l’enorme rete viaria della Capitanata, con il grande hub aeroportuale di Bari Palese) è vissuto –salvo rare e lodevoli eccezioni- come feticcio o ipostasi assoluta, strumento vindice di antichi soprusi e frustrazioni.
D’altronde, per dimostrare l’allergia di Foggia alla democrazia moderna, e quindi la sua soggiacenza alle culture retrive di qui quella mafiosa è indiscutibilmente la più forte, basta vedere la fremente reazione della città alla chiusura della Gazzetta del Mezzogiorno, cioè l’ultrasecolare quotidiano della Puglia e il secondo del Sud peninsulare. Come dite? Non l’avete notata? Certo che no! Non c’è stata. Il crollo, che tutti speriamo temporaneo, del colosso barese è stato recepito con la stessa indifferenza riservata alla devastazione del comparto informativo locale, così brutale e profonda da dover considerare chiunque continui a fare il mestiere di giornalista in questo territorio una sorta di eroe e martire civico. Se credete che questo non c’entri con la vittoria della mafia, vi suggerisco di riflettere meglio.
Io non so se i due anni che ci separano dal ritorno del voto comunale saranno sprecati o daranno frutti: personalmente credo che potranno darli se sapremo puntare sul volontariato vero (quello che si mette in gioco, non quello che si limita a un pur lodevole atteggiamento caritatevole), su una attività culturale diffusa che implichi il ritorno di partiti che non siano una sommatoria di conventicole o di corti e coorti personali, e su una informazione (che non è quella dei social network) come Cristo comanda, che nel nostro contesto significa, mi spiace per i monatti dei “costi della politica”, sostenuti da meccanismi trasparenti e automatici di spesa pubblica.

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