La parola a sproposito della morte. Per Costantino, per gli altri, per tutti noi

by Enrico Ciccarelli

Buona domenica, amiche e amici carissimi. È con il cuore pesante che provo ad accompagnarvi in questa passeggiata festiva nel lieto bosco della poesia. Una pesantezza dovuta alla scomparsa di Costantino Montuori, un collega lucerino che avevo avuto il piacere di conoscere nei primi anni della sua esperienza giornalistica, una quindicina di anni fa. Era timido, garbatissimo, colto e mite. Non so quale malattia o scherzo del fato lo abbia così prematuramente tolto ai suoi affetti. So che quando la morte «inserisce la sua parola a sproposito» non possiamo che avvertirlo come un furto, come la crudele predazione di qualcosa di cui avremmo voluto godere ancora a lungo. Un furto e un monito, perché la nostra capacità umana di empatia è sempre il riflesso del nostro specchio segreto: piangiamo per gli altri perché piangiamo per noi stessi. Subiamo un lutto perché lo riconosciamo memoria e annuncio del nostro che si avvicina.

Ma quando a morire è chi è più giovane (Costantino aveva più di vent’anni meno di me) si aggiunge un sentimento di ingiustizia e di insensatezza, come se il destino o Dio o chi per Lui avessero perso ogni logica, fossero caduti in preda a un delirio malvagio. Fra i molti poeti che hanno cantato la morte, il distacco, il lutto, ho amato in modo particolare Wislawa Szymborska, la polacca premio Nobel 1996. È lei ad avere scritto questa poesia che a me pare simbolo assoluto della condizione umana.

NULLA È IN REGALO

Nulla è in regalo, tutto è in prestito.
Sono indebitata fino al collo.
Sarò costretta a pagare per me
con me stessa,
a rendere la vita in cambio della vita.

È così che è stabilito,
il cuore va reso
e il fegato va reso
e ogni singolo dito.

È troppo tardi per impugnare il contratto.
Quanto devo
mi sarà tolto con la pelle.

Me ne vado per il mondo
tra una folla di altri debitori.
Su alcuni grava l’obbligo
di pagare le ali.
Altri dovranno, per amore o per forza,
rendere conto delle foglie.

Nella colonna Dare
ogni tessuto che è in noi.
Non un ciglio, non un peduncolo
da conservare per sempre.

L’inventario è preciso,
e a quanto pare
ci toccherà restare con niente.

Non riesco a ricordare
dove, quando e perché
ho permesso che aprissero
questo conto a mio nome.

La protesta contro di esso
la chiamiamo anima.
E questa è l’unica voce
che manca nell’inventario.

La protesta contro questo conto. Che è poi la stessa cosa che spinge chiunque a scrivere, qualsiasi cosa scriva. Perché ogni scrittura è ambizione di immortalità, credenza più o meno puerile che l’atto di scrivere postuli o addirittura crei un lettore, qualcuno che intenderà, comprenderà, garantirà sopravvivenza. Perché non abbiamo tutti la gaia e malinconica ironia di Emily Dickinson

SE IO DOVESSI MORIRE

Se io dovessi morire –
E tu dovessi vivere –
E il tempo gorgogliasse –
E il mattino brillasse –
E il mezzodì ardesse –
Com’è sempre accaduto –
Se gli Uccelli costruissero di buonora
e le Api si dessero altrettanto da fare –
Ci si potrebbe accomiatare a discrezione
dalle imprese di quaggiù!
È dolce sapere che i titoli terranno
quando noi con le Margherite giaceremo –
Che il Commercio continuerà –
E gli Affari voleranno vivaci –
rende la partenza tranquilla
e mantiene l’anima serena –
Che gentiluomini così brillanti
dirigano la piacevole scena!

Se la formidabile Emily si preoccupa di ciò che permane indisturbato, i poeti sono da sempre rapiti dall’Oltretomba, dai cimiteri, dagli spettri. Omero e Virgilio mandano Ulisse ed Enea nell’Ade da vivi (come farà un tredici secoli dopo Durante degli Alighieri), lo pseudo-Ossian introduce il Romanticismo fra le lapidi, Foscolo si occupa delle urne de’ forti, uno dei più alti esiti della poesia mondiale del Novecento, l’antologia di Spoon River, dà voce alle tombe di Springfield… Sono altrettanti esorcismi, atti di fede nel potere magico dell’immagine e delle parole, la cui degenerazione potete vedere nella maniacale ossessione dei selfie, che credono di rendere perenne ciò che è momentaneo e precario. La precarietà di cui spietatamente parla questa (celeberrima) lirica di Cesare Pavese

VERRA’ LA MORTE E AVRA’ I TUOI OCCHI

Verrà la morte e avrà i tuoi occhi
questa morte che ci accompagna
dal mattino alla sera, insonne,
sorda, come un vecchio rimorso
o un vizio assurdo. I tuoi occhi
saranno una vana parola,
un grido taciuto, un silenzio.
Così li vedi ogni mattina
quando su te sola ti pieghi
nello specchio. O cara speranza,
quel giorno sapremo anche noi
che sei la vita e sei il nulla.
Per tutti la morte ha uno sguardo.
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.
Sarà come smettere un vizio,
come vedere nello specchio
riemergere un viso morto,
come ascoltare un labbro chiuso.
Scenderemo nel gorgo muti.

E può mai mancare, in questo excursus, il poeta totale, Pablo Neruda? Gran signore delle metafore e delle metriche? Cantore di montagne, selve e moltitudini nonché principale fornitore di poesie da corteggiamento? Certo che no. Ecco, nella scintillante traduzione di Salvatore Quasimodo, la sua fluviale

SOLO LA MORTE

Vi sono cimiteri solitari,
tombe piene d’ossa senza suono,
se il cuore passa da una galleria
buia, buia, buia,
come in un naufragio dentro di noi moriamo
come annegando nel cuore
come scivolando dalla pelle all’anima.

Ci sono cadaveri
e piedi di viscida argilla fredda,
c’è la morte nelle ossa,
come un suono puro,
come un latrato senza cane,
che viene da campane, da tombe,
che all’umido cresce come pianto o pioggia

A volte vedo solo bare a vela/salpare con pallidi defunti, con donne dalle trecce morte
con panettieri bianchi come angeli,
con fanciulle assorte spose di notai,
bare che salgono il fiume verticale dei morti,
il fiume livido
in su con le vele gonfiate dal suono verticale della morte.
La morte arriva a risuonare
come una scarpa senza piede, un vestito senza uomo,
riesce a bussare come un anello senza pietra né dito,
riesce a gridare senza bocca, né lingua, né gola.

La morte sta sulle brande;
sui materassi che affondano, sulle coltri nere
vive distesa, e all’improvviso soffia:
soffia un suono oscuro che gonfia le lenzuola;
e ci sono letti che navigano verso un porto
dove sta in attesa vestita da ammiraglio
.

Come sapete, ogni tanto, per mera presunzione, inserisco in queste compilation di grandissimi i miei versi da dilettante. La poesia che segue risale alla fine degli anni Settanta, quando l’eroina arrivo come uno tsunami sulla nostra giovinezza nutrita di ingenui o feroci fervori. Siate indulgenti.

È MORTA DI EROINA

È morta di eroina, non molti giorni fa,

una ragazza che si chiama Sandra

il cui viso somiglia a un pesco in fiore.

E ora, parlando di lei,

è più opportuno usare l’imperfetto.

Non tornerà più ad incontrarmi in strada

dove le davo caramelle forti

per la sua voce eternamente roca.

Quella polvere bianca, d’estate,

quella polvere bianca che odio

ha potuto spezzarla.

Così lei se n’è andata

come un attore giovane e maldestro

che, dischiuso il sipario,

tema il pubblico e fugga.

Non so se tutto questo cammino lugubre vi abbia guastato la giornata. In realtà, se è vero che, come dice Faber, «La morte vi sorveglia gioir nei prati o fra i muri di calce, come crescere il gran guarda il villano finché non sia maturo per la falce», questa consapevolezza è lievito per amarla, la vita. «Passerai, e in ciò sta la bellezza» ha scritto la sullodata Szymborska. Piangiamo per Costantino, per le altre e gli altri che lo hanno preceduto o lo seguiranno, per noi stessi che ne condivideremo la sorte; ma essere vivi, pienamente e ostinatamente vivi, è l’unico vero modo che abbiamo per rendere onore ai morti. E a tutti.

You may also like

Non è consentito copiare i contenuti di questa pagina.