La sfida di Carlo Calenda e la democrazia decidente di Mister Smith

by Enrico Ciccarelli

Partecipo con curiosità, grazie allo sforzo organizzativo del parlamentare Nunzio Angiola, alla chiusura della campagna elettorale di Carlo Calenda, che ha lanciato il suo guanto di sfida per il Campidoglio.

Fossi un cittadino dell’Urbe, non avrei dubbi su chi votare, avendo avuto la possibilità di seguire da vicino l’opera di Calenda al Ministero dello Sviluppo Economico. Tuttavia l’esito del voto di domenica non è importnte solo per capire se la città più bella e maltrattata del mondo ritroverà l”esser suo, e tanto meno per le sorti personali del politico più impolitico d’Itlia e della sua creatura, Azione. La partita del Palazzo Senatorio servirà anche e soprattutto a fare il punto sullo stato della Grande Transizione, sulle linee di prospettiva del sistema politico italiano dopo la Rivoluzione Draghi.

Non è vicenda inedita: la Seconda Repubblica cominciò così. Non con la discesa in campo di Berlusconi, che ne fu conseguenza, ma con le battaglie per i Comuni di Roma e Napoli e i duelli Rutelli-Fini e Bassolino-Mussolini, nel 1993. Erano le prime prove della legge 81 sull’elezione diretta dei sindaci e d quella effimera e controversa stagione che è stata il maggioritario all’italiana. Per la prima volta le figure dei candidati sopravvanzavano o almeno affiancavano quelle dei partiti e delle coalizioni. Per la prima volta i rituali e i recinti della proporzionale cedevano e aprivano il varco a quella che i politologi chiamano la “costituzionalizzazione delle estreme”. I sistemi proporzionali tendono a premiare le forze moderate e a tagliare le ali e il radicalismo di destra e di sinistra, mentre il maggioritario le arruola e in qualche modo le favorisce.

Ma ancora più forte e decisiva fu la spinta verso la democrazia decidente. Una legge imperfetta come la 81 (viziata dagli accordi di secondo turno e soprattutto dalla distorsione dei premi di maggioranza consiliari) dava comunque l’idea o la suggestione che il voto dei cittadini determinasse dei decisori, e quindi, sperabilmente, delle decisioni. La delega in bianco a partiti che avrebbero poi determinato in modo consociativo (e quindi ipermediato, e quindi lento) i provvedimenti lasciava il posto alla persona cui si affidavano le chiavi della città.

Era un sistema che poteva produrre (e in diverse occasioni ha prodotto) esiti disastrosi, portando a cingere la fascia tricolore capipopolo, pifferai magici e pregiudicati. Ma era anche la restituzione della democrazia rappresentativa alla sua radice profonda, in base alla quale il popolo sceglie non solo chi dibatte e legifera, ma anche chi governa, direttamente o indirettamente.

Non è un caso che Calenda abbia fatto della sua campagna elettorale un esempio quasi paradigmatico della democrazia decidente: “Scegli un sindaco e non un partito”, il suo payoff esprime in modo quasi eversivo i connotati della scelta, accentuati dal deliberato rifiuto delle liste civetta e delle lenzuolate di candidati. Proposta snella, manageriale, che rifiuta deliberatamente ogni piacioneria e ogni ammiccamento ai diffusi vizi di Roma Capitale (l’unica città al mondo -credo- nella quale funzionari dell’azienda di trasporti falsificavano i titoli di viaggio). Come in certi film di Frank Capra (qualcuno ricorda “Mister Smith va a Washington”), Calenda si presenta come l’uomo comune capace, estraneo alle consorterie e alle conventicole e di esse nemico giurato, che viene a restituire al cittadino la sua arma assoluta: il potere di scegliere.

Funzionerà? Il successo di critica, cioè un risultato molto lusinghiero rispetto alla forza teorica dei partiti dell’area riformista, è sicuro. Ma resta l’incognita sull’ingresso al ballottaggio (nel quale probabilmente vincerebbe contro qualunque avversario). Il profeta disarmato competente e con le idee chiare riuscirà a prevalere sulla forza organizzata di partiti che -persa del tutto la loto funzione di mediazione sociale- sono però ancora potenti nella gestione e nell’elargizione dei rivoli di privilegi e di spesa pubblica, nelle sacche clientelari che come cisti e tumori persistono nel grande e malato organismo che è Roma?

Per Roma c’è da augurarselo. Per il passaggio dell’Italia a una democrazia vera, ossia decidente, ancora di più. Ma Roma -si sa- non fu costruita in un giorno. E nemmeno espugnata.

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