La solitudine delle vittime

by Enrico Ciccarelli

La vicenda di Benevento, nella quale un uomo di 64 anni è accusato di avere pagato un killer perché uccidesse l’uomo che ha violentato sua figlia quindicenne, suicidatasi pochi mesi dopo la violenza, è di quelle che rappresentano un autentico ginepraio dell’etica. Sul piano giuridico il problema non si pone: se il signor Iorillo (si chiama così, se ho capito bene) verrà trovato colpevole, sconterà una lunga pena detentiva.

Sul piano morale è difficile non sentirsi vicini a un genitore straziato che ha visto spezzarsi la vita di una ragazza innocente e a lui profondamente cara. Quindi, pur trovando mostruosi i post che “rendono onore” al presunto mandante di un omicidio, credo non si possa non considerare il disumano strazio a cui questa persona è stata esposta per l’atto abietto di un animale (spiace parlar male di un morto, ma mi pare inevitabile). E tuttavia…
Sono almeno tre le cose che meritano di essere sottolineate in questa vicenda, che la superficialità disinformata dei social tende a tralasciare.
La prima: il delitto non è un delitto d’impeto, e non solo perché è stato compiuto per il tramite di un killer, ma perché non è avvenuto nell’immediatezza della violenza sessuale o del suicidio della sventurata adolescente. Lo Stato, infatti, si era mosso con inusuale celerità, aveva identificato e condannato (devo ritenere su denuncia della ragazza) lo stupratore, infliggendo gli una pena detentiva di oltre undici anni. La casistica delle pene irrogate per violenza sessuale è molto più tristemente irrisoria. Quindi il signor Iorillo (partendo dall’idea che sia colpevole di quanto ascrittogli, il che è ovviamente da dimostrare) non ha potuto vendicare l’amara perdita subita (lo stupro è del 2007, ilsuicidio della giovane del 2008).
Sempre prendendo per buona la ricostruzione accusatoria, il padre straziato ha non solo premeditato il delitto (come è sempre quando si ingaggia un killer), ma lo ha coltivato per dieci lunghi anni. Il pastore responsabile della bestiale violenza su una ragazza che avrebbe potuto essere sua figlia è stato infatti ucciso nel 2018, quando ha usufruito dei benefici di legge dopo avere scontato nove degli anni della sua condanna. Questo decennio allude più a un rancore inestinguibile che a un dolore insopportabile. Certo, è l’atto di un’anima che si è spenta insieme a quella di sua figlia, che non ha saputo o voluto andare avanti. Una vendetta pianificata. assaporata, delibata così a lungo da perdere qualsiasi connotato di umanità, anche il più distorto.
Il terzo è forse più importante aspetto si riferisce alla ragazza, al povero fiore spezzato dalla brutalità dello stupratore. Non c’è dubbio alcuno che la responsabilità del suo suicidio ricada sull’anima nera del violentatore. Lo stupro è un evento di tale traumatica devastazione che donne molto mature e molto forti rischiano di venirne travolte, e lascia in ogni caso un segno indelebile. Immaginiamoci su un’adolescente di un piccolo centro sannita. Ecco: prima di vendicarla, qualcuno ha pensato ad aiutarla. Lo Stato, benemerito e solerte, ha pensato solo, giustamente, a togliere dalla circolazione per qualche anno un essere ripugnante? Nessuno ha pensato che potessero servire delle strategie di sostegno, un supporto psicologico, un aiuto? Specialmente in un contesto come quello meridionale, dove sopravvivono in misura maggiore che altrove arcaici pregiudizi e dove la tendenza alla colpevolizzazione della donna vittima di violenza sessuale è tristemente radicata.
Direi che, prescindendo dalla facile tentazione di pronunciare giudizi e sentenze (sarà materia di magistrati che decideranno in scienza e coscienza avendo scrupolosamnte letto tutte le carte, e non -come noi- solo qualche titolo a effetto), balza agli occhi che il vero tema sia la solitudine delle vittime: sola e smarrita nel buio della disperazione la ragazza stuprata, solo e attossicato dal veleno della vendetta suo padre. Una solitudine spessa, tetragona, opaca, che non viene penetrata dalle facili onde del sentimento social. Applaudire e fischiare può essere divertente, ma l’unica cosa che serve davvero è pensare.

You may also like