Le dentali di Ciriaco nella Balena Bianca. De Mita, leader a cavallo di due ere

by Enrico Ciccarelli

Nella storia e nell’immaginario, Ciriaco De Mita sarà per sempre indissolubilmente legato alla sua Nusco, la ridente cittadina irpina di poco meno di quattromila abitanti di cui è stato sindaco fino alla veneranda età di 94 anni, quando gli è arrivata la chiamata che giunge a tutti senza eccezioni. «Non è che uno che è nato a Nusco può pensare di fottere a me, che sono nato alla Sanità a Napoli» ebbe a dire una volta Paolo Cirino Pomicino, prima di diventare padre nobile e testa pensante dei dibattiti della Seconda e Terza repubblica.

Lui, Ciriaco, no: rimase sempre nella Prima, in quella vasta epopea di scelte coraggiose e clientele locali, di dighe anticomuniste e irriducibile avversione ai socialisti, di Chiesa maestra ma tenuta sempre a pochi centimetri dalla linea dell’ingerenza, di interclassismo e dottrina sociale della Rerum Novarum. Sempre con l’eloquio faticoso e denso che la politica dell’epoca usava sia come latinorum manzoniano, sia come pedagogia della complessità; sempre con quelle dentali spesso frammiste, con le t che diventavano d e viceversa. E con quella capacità straordinaria dei volteggi acrobatici fra le grandi scelte epocali e le storie della piccola gente, fra i testi legislativi destinati a cambiare il Paese (si pensi al diritto di famiglia varato nel 1975) e le lettere in carta intestata destinate a invocare ogni benevolo e consentito interessamento.

Non era un piacione, Ciriaco De Mita da Nusco. Lo vedevo aggirarsi, ormai quasi completamente cieco, nelle stanze iperfunzionali di Strasburgo e Bruxelles (è stato due volte eurodeputato) con la posa austera di chi non si sente affatto un sopravvissuto, ed è anzi pronto a chiarire ai giovani inesperti come David Sassoli o Antonio Tajani dove andasse e soprattutto dove dovesse andare l’Europa. Un dire e un impartire che erano fatti di pedagogia affaticata e pessimista, ma anche di autentico affetto di maestro. Anche nei confronti dei nuovi tribuni proposti dal millennio, da Umberto Bossi a Matteo Renzi (per tacere delle pestilenze successive) manifestò sempre non tanto disprezzo, quanto addolorato e incredulo stupore, punteggiato dei suoi proverbiali «Ascolti, segua il ragionamendo».

Eppure non fu mai un conservatore o un passatista. Al contrario fu l’inventore dell’Arco Costituzionale, che in tempi di opposti estremismi e strategia della tensione includeva il Pci, ma non il Msi. E fu artefice, sul finire degli anni Sessanta, del Patto di San Ginesio, che portava al cambio generazionale nel nome suo e di Arnaldo Forlani, con l’idea di mandare in soffitta i patriarchi Fanfani e Moro. Disegno fallito pochi anni dopo, per la restaurazione fanfaniana e morotea. Non si intese mai con Giulio Andreotti, l’eterno Belzebù. Per De Mita i poteri forti, di qua e di là dal Tevere, di qua e di là dall’oceano, erano terra incognita da decifrare con àuguri e aruspici. Non per caso Gianni Agnelli all’apice del suo potere gli regalò lo sferzante appellativo di intellettuale della Magna Grecia.

Ma di politica capiva eccome. Per questo toccò a lui, nel 1982, subentrare all’esangue Flaminio Piccoli a Piazza del Gesù, come segretario della Democrazia Cristiana. La tragedia di Moro e il terrorismo avevano scosso dalle fondamenta la Balena Bianca: lo storico incontro con il monolite comunista vagheggiato dallo statista di Maglie si era dissolto fra i colpi delle Br e le nebbie degli euromissili. Ma altro e più temibile nemico incombeva: Bettino Craxi, spregiudicato e autonomo leader socialista, la cui guerra corsara aveva sfrattato la Dc da Palazzo Chigi a beneficio del mite Giovanni Spadolini.

De Mita intuì che, benché la Prima Repubblica apparisse ancora senza alternative, si poneva un problema di leadership ingestibile con i vecchi rituali. Cercò di riqualificare l’immagine della Democrazia Cristiana (artefice la giovane e talentuosa Silvia Costa) in senso efficiente e decisionista. Proprio «Decidi Dc» fu l’infelicissimo slogan scelto per la campagna elettorale delle politiche 1983, con l’inedito appoggio allo scudo crociato di Eugenio Scalfari e Repubblica e l’ancor più inedito disastro elettorale, che portò la Dc a perdere quasi sei punti percentuali.

La supremazia del pentapartito venne garantita dagli alleati, e toccò quindi dare via libera a Bettino Craxi come presidente del Consiglio, in quegli anni prosperi e sulfurei in cui esplosero il debito pubblico e la corruzione, ma anche il Prodotto Interno Lordo e il potere d’acquisto delle famiglie. De Mita logorò se stesso e la sua immagine in un lungo duello con il Cinghialone, come veniva chiamato Craxi. Per distruggerne l’astro provocò crisi ed elezioni anticipate, ma non fece che affrettare il suo tramonto, avvenuto, come da tradizione democristiana, dopo un breve momento di gloria in cui fu contemporaneamente segretario del partito e presidente del Consiglio.

Il restante trentennio è stato curiosità intellettuale, progressivo declino, qualche bizza senile o scatto d’orgoglio; ma ormai il più era fatto. Una vita politica cominciata con l’amorevole patronage del foggiano Vincenzo Russo, che lo arruolò nell’Eni di Enrico Mattei, e in cui ricopre il ruolo di demiurgo per le fortune di Romano Prodi come per quelle di Gigi Marzullo: perché nella Prima Repubblica nulla era distante. Tanto meno Roma da Nusco.

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