Nicola Zingaretti e lo psicodramma del Nazareno

by Enrico Ciccarelli

Lo psicodramma innescato dalle dimissioni di Nicola Zingaretti da segretario del Partito Democratico, dà molti spunti di riflessione. Intanto dal punto di vista dello stile. Per citare uno che non mi è simpaticissimo come Pierluigi Bersani, che aveva ben altri motivi di comprensibile doglianza nei confronti del suo partito di allora, si deve ricordare a suo vanto che lasciò con dignità ed eleganza, come d’altronde hanno fatto Veltroni, Franceschini, Epifani, Renzi, Martina.

L’acrimonia violenta, da parte di una persona che è per solito assai pacata, mostra il livello di tensione e di nervosismo presente in una forza politica in grande difficoltà, incerta sul chi essere prima ancora che sul che fare.
Non è strano: il Pd nasce dall’idea di rappresentare un campo largo, di riassumere in sé più culture, di essere un bastione socialdemocratico e liberaldemocratico capace di essere punto di riferimento e di gravitazione per le nuove spinte ambientaliste e le nuove frontiere del progressismo, dai diritti civili alla difesa del lavoro alla tutela dei deboli. La declinazione di questa mission è stata molto diversa, nel tredici anni di vita del partito.
La più recente ambiva a riassorbire nell’ambito del centrosinistra l’inquieta meteora del Movimento Cinquestelle, liberandola delle sue asprezze eversive e assorbendone le istanze meno squinternate. Una strategia che aveva bisogno di un chiaro primato di consensi del Pd e di un parallelo ridimensionamento dei Cinquestelle. A rendere fragile il meccanismo è stato l’equivoco Conte. Forse per inseguire la sua presunta popolarità, il professore di Firenze è stato incoronato come Papa straniero e punto di riferimento dei progressisti, quasi a farne un secondo Romano Prodi.
E ora non solo il Pd se lo ritrova come leader annunciato di un partito concorrente, ma anche intento a rivendicare con garrulo entusiasmo il “sano populismo” del Governo gialloverde. Roba per stomaci forti, anche per un partito a trazione governista come il Pd, che è stato all’opposizione, con qualsiasi risultato elettorale, solo per quattro anni su tredici. Pretendere che questo disastro non destasse una discussione interna, peraltro molto pacata mi sembra ardito.
Certo, la compagnia di giro della cialtronaggine opinionistica lega tutto al Grande Satana Matteo Renzi, o a quella che spiritosamente Luca Telese chiama la “corrente saudita” del Pd, in evidente ritorsione per la “corrente thailandese” utilizzata dallo stesso Renzi per sfottere Goffredo Bettini, l’ideologo di Zingaretti che in Thailandia risiede. Ma è un alibi farlocco e penoso: ammesso che resista una qualche eredità di Renzi nei gruppi parlamentari, e non mi pare, gli organismi di partito sono stati rinnovati nel congresso del 2019, vinto senza incertezze da Zingaretti.
Evocare il nemico interno e la quinta colonna è piuttosto il riflesso di un penoso arsenale stalinista. Dopo cent’anni dalla scissione di Livorno, sarebbe il caso di farla finita. Il vero problema è che, piaccia o meno, in un mese la politica italiana è cambiata per sempre, lungo tutto l’arco dello schieramento politico. La difficoltà di Zingaretti, a mio modesto avviso, è quella di non avere compreso e probabilmente non voler comprendere questo cambio di passo. A meno che –ma non voglio far torto alla serietà di Zingaretti considerandolo un bambinetto con il broncio- non si assista allo spettacolo indecoroso del ritiro delle dimissioni, cosa che invererebbe la celebre massima di Ennio Flaiano “la situazione è tragica, ma non è seria”. Alla prossima.

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