Buona domenica, amiche e amici carissimi. Nel post poetico-intimistico di oggi parlerò del Nòstos, del ritorno. Nòstos, il ritorno, è una figura centrale dell’epopea classica. È Dante Alighieri a fissare nel nostro immaginario la figura di Ulisse come quella dell’esploratore mosso da perpetua sete di conoscenza (e «virtute»), pronto a sacrificare per essa vita ed affetti. Ma nell’epos classico è un eroe che non avrebbe mai voluto partire e brama soltanto di ritornare, benché amato da donne, maghe e ninfe. Si comprende facilmente questo salto alla luce della diversa concezione del tempo introdotta dalle religioni monoteiste, che lo intepretano come un percorso che ha un inizio e una fine, laddove le sapienze arcaiche lo vedono come un ciclo. Il ritorno dell’uomo alla patria perduta non è che sembiante del lento giro del cosmo, del perpetuo ripresentarsi delle stagioni, di quanto è legato alle società della pastorizia e dell’agricoltura. Nel mito dell’ebreo errante la tragedia non sta nel vagare, ma nell’impossibilità di tornare. La diaspora ebraica è tragica perché origina dalla distruzione del Tempio, dalla consunzione delle radici. Non è un caso che il profondo fascino che il sionismo esercitò sulle comunità ebraiche del mondo abbia trovato fondamento nella stessa narrazione messianica della Terra Promessa, che appartiene al Popolo Eletto come dono di Dio e segno della sua benevolenza (narrazione che ha il suo rilevante peso nell’irrisolta questione palestinese e in quant’altro si accompagna al tumultuante calderone del Medio Oriente).
Fu Costantino Kavafis, nella mirabile Itaca, a stabilire che non vi è alcuna antinomia tra viaggio e ritorno, essendo quest’ultimo precondizione del primo. La poesia è notissima, specialmente alle mie conoscenze, visto che la infliggo ripetutamente alla loro attenzione. Ma vale la pena di soffermarvisi una volta di più.
ITACA
Quando ti metterai in viaggio per Itaca
devi augurarti che la strada sia lunga,
fertile in avventure e in esperienze.
I Lestrigoni e i Ciclopi
o la furia di Nettuno non temere,
non sarà questo il genere di incontri
se il pensiero resta alto e un sentimento
fermo guida il tuo spirito e il tuo corpo.
In Ciclopi e Lestrigoni, no certo,
nè nell’irato Nettuno incapperai
se non li porti dentro
se l’anima non te li mette contro.
Devi augurarti che la strada sia lunga.
Che i mattini d’estate siano tanti
quando nei porti – finalmente e con che gioia –
toccherai terra tu per la prima volta:
negli empori fenici indugia e acquista
madreperle coralli ebano e ambre
tutta merce fina, anche profumi
penetranti d’ogni sorta; più profumi inebrianti che puoi,
va in molte città egizie
impara una quantità di cose dai dotti.
Sempre devi avere in mente Itaca –
raggiungerla sia il pensiero costante.
Soprattutto, non affrettare il viaggio;
fa che duri a lungo, per anni, e che da vecchio
metta piede sull’isola, tu, ricco
dei tesori accumulati per strada
senza aspettarti ricchezze da Itaca.
Itaca ti ha dato il bel viaggio,
senza di lei mai ti saresti messo
sulla strada: che cos’altro ti aspetti?
E se la trovi povera, non per questo Itaca ti avrà deluso.
Fatto ormai savio, con tutta la tua esperienza addosso
già tu avrai capito ciò che Itaca vuole significare.
Forse esagero a ritenerla la più bella poesia che sia mai stata scritta e a considerare opportuno che venga letta in tutte le scuole a mo’ di preghiera mattutina, ma sono convinto che dica qualcosa di bello e prezioso sulla natura umana. Ma non tutti i ritorni hanno successo. C’è quello, nemmeno tentato, dell’amico suicida di Giuseppe Ungaretti,
IN MEMORIA
Si chiamava
Moammed Sceab
Discendente
di emiri di nomadi
suicida
perché non aveva più
Patria
Amò la Francia
e mutò nome
Fu Marcel
ma non era Francese
e non sapeva più
vivere
nella tenda dei suoi
dove si ascolta la cantilena
del Corano
gustando un caffè
E non sapeva
sciogliere
il canto
del suo abbandono
L’ho accompagnato
insieme alla padrona dell’albergo
dove abitavamo
a Parigi
dal numero 5 della rue des Carmes
appassito vicolo in discesa.
Riposa
nel camposanto d’Ivry
sobborgo che pare
sempre
in una giornata
di una
decomposta fiera
E forse io solo
so ancora
che visse.
Qui il sommo Ungaretti non ha ancora del tutto affinato la sua formidabile maestria nell’onomatopea, in quella significanza fonetica prima che concettuale che sarà sua cifra stilistica imperitura. Ma la poesia è ugualmente potentissima in mestizia e immagini (la «decomposta fiera» è forse la più potente metafora della tristezza che abbia mai incontrato).
E ci sono i ritorni falliti («Ah, Mimì, tu più non torni…») delle memorie smarrite nel tempo frastornato di cui parla Montale nella Casa dei Doganieri.
LA CASA DEI DOGANIERI
Tu non ricordi la casa dei doganieri
sul rialzo a strapiombo sulla scogliera:
desolata t’attende dalla sera
in cui v’entrò lo sciame dei tuoi pensieri
e vi sostò irrequieto.
Libeccio sferza da anni le vecchie mura
e il suono del tuo riso non è più lieto:
la bussola va impazzita all’avventura.
e il calcolo dei dadi più non torna.
Tu non ricordi; altro tempo frastorna
la tua memoria; un filo s’addipana.
Ne tengo ancora un capo; ma s’allontana
la casa e in cima al tetto la banderuola
affumicata gira senza pietà.
Ne tengo un capo; ma tu resti sola
né qui respiri nell’oscurità.
Oh l’orizzonte in fuga, dove s’accende
rara la luce della petroliera!
Il varco è qui? (Ripullula il frangente
ancora sulla balza che scoscende . . . )
Tu non ricordi la casa di questa
mia sera. Ed io non so chi va e chi resta.
E poi c’è la nostalgia. Assai ben espressa, magari con un eccesso di languore, da Vincenzo Cardarelli (che aveva un aspetto così macilento che quella malalingua di Ennio Flaiano lo presentava come «il più grande poeta morente»).
PAESAGGIO NOTTURNO
Giace lassù la mia infanzia.
Lassù in quella collina
ch’io riveggo di notte,
passando in ferrovia,
segnata di vive luci.
Odor di stoppie bruciate
m’investe alla stazione.
Antico e sparso odore
simile a molte voci che mi chiamino.
Ma il treno fugge. Io vo non so dove.
M’è compagno un amico
che non si desta neppure.
Nessuno pensa o immagina
che cosa sia per me
questa materna terra ch’io sorvolo
come un ignoto, come un traditore.
Infine, siccome la mia vanità e la benevolenza di alcuni fra voi mi induce ad accoppiare i miei pedestri componimenti con quelli dei grandi, inserisco una remota poesia in rima baciata che scrissi una trentina d’anni fa.
AH, NON CERCATE MAI DI RITORNARE
Ah, non cercate mai di ritornare
ai luoghi che vi han visto innamorati;
ma non per via delle sorprese amare:
a quelle, ormai, sarete abituati.
È perché nel profondo dell’anima
cedereste all’insana passione
dell’ennesima, atroce disàmina
di quel vostro lontano copione.
Trovereste dettagli nascosti
a spiegare quel certo sorriso;
pensereste ai ricavi ed ai costi
della luce che aveva quel viso.
Ridereste, potendovi vedere
stesi sul letto a biascicar ricordi
nell’alta notte che non vuol sapere,
di stelle vuote e di vicoli sordi.
Ma non potete; ed ecco che si insinua
la sensazione che non sia finita,
che quella forza è viva, che continua,
che la dolcezza sua non è svanita.
È vano, è vano! La magia e l’incanto
nella voce di lei sono immutate,
ma se provate a camminarle accanto
capirete che non lo meritate.
Si è perduto per sempre qualcosa
lungo la stretta e faticosa via
e inseguirla è patetica posa,
un’inutile e pietosa bugia.
E finirai così per ritrovarti
rovesciato, dismesso, perduto,
con il dolore stretto, mentre parti,
fra le dita di un fioco saluto
Amate sempre il viaggio, amiche e amici. E non smarrite nel viaggio i ricordi. Anche quelli di chi non vedete o non vedete più, ma resta in cammino con voi.