Piano… Piano, dolce Carlotta. Rossignoli e l’Italia del rancore che ha dimenticato Di Vittorio. Ed Erminio Paoletta

by Enrico Ciccarelli

Prendiamo a prestito uno dei titoli più fuorvianti della storia del cinema (sembrerebbe un porno softcore e invece è uno scombiccherato horror statunitense) per parlare del piccolo museo degli orrori che si è scatenato sull’affaire Rossignoli, che a beneficio dei lettori provvidenzialmente distratti riassumo brevemente.

Carlotta Rossignoli è una splendida ragazza di Verona con un chilometro e mezzo di gambe, influencer dai numeri risicati (benché triplicati causa polemiche social, i suoi follower su Instagram, quarantottomila, non sono certo paragonabili agli oltre ventotto milioni di Chiara Ferragni), modella di intimo e presenza televisiva in tacco dodici in una trasmissione calcistica (se abbiamo capito bene) di un’antenna locale.

Una bella ragazza consapevole di esserlo, a cui piace viaggiare e godersi la vita. Che però ha il «torto» di essere una formidabile studentessa; lo ha dimostrato al Liceo, dove si è diplomata con 100 e lode in quattro anni soltanto, e all’Università, laureandosi con un semestre d’anticipo nel non facile Ateneo privato «San Raffaele».

Pubblicamente elogiata e additata ad esempio, con corredo di dichiarazioni imprudenti o barbine quali quelle che ci si può attendere da un’influencer (è stata fra le altre cose linciata per avere detto di ritenere il sonno «uno spreco di tempo») Carlotta è finita nel tritacarne social a causa dell’imbecille e ottusa crociata contro il merito seguita al cambio di nomenclatura del Ministero dell’Istruzione.

Meritevole, quindi testimonial dell’abominevole destra meloniana, è stato il riflesso pavloviano dell’Italia del rancore, che ha subito messo in campo la sua più fulgida icona: la schiumosa (vuoi per l’inconsistenza del suo dire, vuoi per i palesi liquami epatobiliari di cui la sua prosa trasuda) Selvaggia Lucarelli, già columnist del Fatto Quotidiano oggi a Domani, che ha pensato bene di fucilare sul posto la malcapitata.

Primo addebito; è ricca. In realtà non pare, avendo un padre funzionario di banca e una madre casalinga. Un mio interlocutore social mi ha detto, per la verità, che sua madre sarebbe una facoltosa ereditiera milanese, ma a mia scienza le ricche ereditiere sposano i banchieri, non i bancari. Diamo per scontato che non si tratti della piccola fiammiferaia, in ogni caso. Con ciò? A me pare che, se davvero appartenesse a una famiglia molto agiata, sarebbe da lodare due volte: perché preferisce perseguire con determinazione i suoi obiettivi e dedicarsi allo studio, anziché godersi in ozio e lussi la riccanza, come fanno tante e tanti ragazzi della jeunesse dorèe.

Secondo capo d’accusa: come ha fatto? Il percorso di un qualsiasi studente in Medicina non è una passeggiata di salute, si sa. E dunque come ha fatto la bella Carlotta a viaggiare, posare, condurre e contemporaneamente a fare studi così profittevoli? Ci sarà del marcio in Danimarca? La Selvaggia sembra esserne persuasa, anche citando anonimi colleghi di Carlotta che parlano di esami da lei sostenuti «a porte chiuse» inducendo alla potente e stuzzicante suggestione che la maliarda abbia potuto arricchire il suo libretto grazie a prestazioni extracurricolari à la carte.

A parte la ridicolaggine fantasiosa dell’ipotesi, Lucarelli vuole insinuare che un certo numero di pubblici ufficiali si sarebbe macchiato in concorso di reati di una certa gravità per consentire a una fanciulla di presunti magnanimi lombi di risparmiare un semestre sulla laurea? Sembra un’idea troppo immaginifica anche per un giornale come «Domani», non particolarmente incline alla verisimiglianza.

Terzo e decisivo punto della requisitoria; il favoritismo. Perché la corsia preferenziale accordata a Rossignoli sarebbe stata negata ad altri studenti. Notizia di cui non si comprende il fondamento (non risultano istanze similari respinte) e che comunque è stata ampiamente smentita dalla San Raffaele. Insomma, un semplice esercizio di odio social per provare a sminuire una buona performance scolastica e accademica di una ragazza capace e fortunata. Che peraltro, come ha ricordato Roberto Burioni, non è affatto un caso isolato, ed anzi non è nemmeno la laureata in Medicina più giovane d’Italia.

La cosa desolante, però, non è che una come Lucarelli scriva sui giornali (c’è di peggio, sinceramente) né che una donna debba pagare inevitabilmente dazio alla sua bellezza (mettete al posto di Carlotta una miope brevilinea e cifotica e vedrete che nessuno se la prende), né che l’alibismo sociale sia ormai malattia endemica di portata tale da far considerare intollerabile il merito e il successo. La cosa tristissima è che questa dozzinale venerazione dell’ignoranza, dell’incapacità e del demerito sia fatta passare come una cosa de sinistra, fondata su un punto di vista illuminato e progressista.

Per carità: non c’è dubbio che la pedagogia democratica, da Mario Lodi a Don Milani, abbia giustamente combattuto un’idea di scuola basata sull’approvazione o lo scarto, e solo chi è in malafede può ritenere che le diseguaglianze di censo, di ceto, di geografia non abbiano il loro peso nel rendimento scolastico (e sociale, e professionale) di ciascuno. L’errore e l’infamia consistono nel lasciar credere che il livellamento delle eccellenze, il sei politico, la negazione della valutazione siano un modo per superare le diseguaglianze mentre in realtà le blindano.

La rassegnazione e la ricerca di alibi non sono valori di sinistra, e sono anzi il principale fondamento della conservazione del potere da parte dei ceti dominanti: è un valore della sinistra l’impegno. Non il rifiuto o la sottovalutazione dello studio, ma al contrario la pretesa di esso.

Perché la rivendicazione della cultura, del possesso delle nozioni e delle abilità è la premessa del funzionamento, anche il più blando, dell’ascensore sociale. E Giuseppe Di Vittorio, leggendario leader della Cgil, nella sua biografia più ancora che nelle sue idee, incarnò questa bramosia di conoscenza, eternata nell’aneddoto deamicisiano di quando, vedendo un dizionario sulla bancarella di un libraio ambulante e non avendo denaro sufficiente a comprarlo, cedette per averlo la propria giacca.

Antonio Gramsci (ma non la pensavano diversamente Palmiro Togliatti ed Enrico Berlinguer) incitava i giovani comunisti a primeggiare negli studi. Non credo fosse comunista l’accadiese Erminio Paoletta, professore di greco e latino al Liceo «Lanza» di Foggia (e poi a Napoli). Era figlio di pastori o contadini poveri, e studiava a lume di candela nella stalla, sui libri che gli passavano mio padre e mio zio, più di lui agiati, ma meno di lui studiosi.

Divenne un grecista e latinista insigne e fu celebre, nel piccolo ambito della sua scuola, per essere estremamente preparato ed esigente. Raccontatelo a lui, che il merito non esiste. E vergognatevi.

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