Putin non può vincere, ma serve un mondo più multipolare

by Enrico Ciccarelli

Quando si parla di politica internazionale la prima cosa da fare è mettere da parte la lavagna dei buoni e dei cattivi. Non c’è dubbio da che parte stiano le ragioni e i torti: abbiamo un feroce dittatore le cui preponderanti armate aggrediscono uno Stato sovrano, e abbiamo un popolo eroico che combatte per la propria libertà e indipendenza. Anche sul piano della legalità internazionale, checché ne dica Barbara Spinelli (che triste fine!), non è la Nato ad avere violato inesistenti accordi con Gorbaciov, ma la Russia ad avere non da oggi disatteso slealmente il memorandum di Budapest del 1994, nel quale era sancito il rispetto da parte di Mosca dell’indipendenza e della integrità territoriale dell’Ucraina.

Ma non è per queste ragioni di etica e di diritto che Putin perderà la sua guerra. Sul piano militare non potrà essere sconfitto, non facciamoci illusioni. Il problema non è se Kiev cadrà; il problema è quando e a che prezzo. E non è indifferente: ogni giorno di Resistenza in Ucraina è un chiodo in più sulla bara dell’autarca di Mosca, che come il suo ispiratore Adolf Hitler confidava in una blitzkrieg, in una guerra lampo da risolvere in 48-72 ore. In ogni caso, però, la sua guerra è perduta, per l’assoluta inconsistenza delle sue premesse. La premessa cioè che sia esistente o ripristinabile l’impero sovietico, che la Russia possa ancora giocare la partita planetaria delle superpotenze. Il tema è proprio questo: l’ultimo dei tiranni del Novecento crede di essere ancora nel Novecento, che è invece un tempo irrimediabilmente trascorso.

In questo tempo nuovo, in questo terzo millennio in cui l’equilibrio del terrore non lo fanno più le atomiche ma le pandemie, la Russia continua a essere un gigante militare e geografico, ma è divenuta un nano economico e soprattutto geopolitico. Lo si è visto plasticamente con il voto sulla risoluzione di condanna approvata dall’Onu. Ve lo immaginate, ai tempi –che so- dei massacri d’Ungheria che la Russia ricevesse il pollice verso di 145 Stati? Che votassero a suo favore solo Eritrea, Corea del Nord, Bielorussia e Siria? Non ingannino certe astensioni di peso, a cominciare da quelle di Cina e India. La Russia è stata trattata come un Paese qualsiasi, registrando persino l’avversione di un suo confinante come la Georgia.

Perché gli imperi, anche i più feroci, non possono reggersi solo sulla forza delle armi, che pure ne costituisce l’indispensabile premessa: hanno bisogno di valori. Nell’età delle ideologie il blocco sovietico non era solo l’Armata Rossa: era il Sol dell’Avvenire, il riscatto delle masse lavoratrici, il contraltare al cinico e disumano sfruttamento del capitalismo, l’autodeterminazione dei popoli contro il colonialismo. Proprio come l’Occidente era l’american way of life, il luogo delle libertà e delle opportunità. Non importa quanto discutibili e farlocche fossero quelle narrazioni: c’erano, pesavano, contavano. Prima ancora, l’impero zarista aveva a propria dottrina il panslavismo, di cui il tentativo di Putin di ergersi a paladino delle minoranze russofone dell’Ucraina appare una specie di stinta parodia.

Chi è oggi Vladimir Putin, se non l’esponente estremo di quelle democrazie autoritarie, nazionaliste e xenofobe, conservatrici e omofobe, di cui conosciamo tristi esempi anche nella felice Unione Europea? E nemmeno per loro, nemmeno per il cosiddetto gruppo di Visegrad è un punto di riferimento di qualche fascino. Paradossalmente è proprio la mancanza di phisique du role da parte dello stabile residente del Cremlino a rendere particolarmente seria e irta di incognite la situazione. Perché un impero senza valori, un dittatore senza idee ma con più testate nucleari che capelli è assai più pericoloso di un malvagio con le idee chiare.

Per questo l’Occidente, l’Europa provvidenzialmente unita e quasi miracolata dalle gesta del bullo di Mosca, devono fare a loro volta uno sforzo per uscire dal Novecento, per non farsi prendere dalla nostalgia della Guerra Fredda e della Cortina di Ferro. La crisi ucraina e la sua soluzione postulano nuovi equilibri mondiali, nei quali, piaccia o meno, la Cina dovrà assumersi le sue responsabilità e rivendicare le sue prerogative.

Solo un nuovo mondo, un po’ più multipolare, può disinnescare la bomba ad orologeria che ticchetta dalle parti degli Urali, allontanando dall’Ucraina la tenebra dell’invasione, e al tempo stesso fronteggiare le minacce globali del terrorismo, dei morbi, del riscaldamento globale. Dobbiamo lavorare tutti per questo. A meno che non si preferisca la terza guerra mondiale.

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