Se ne va Salvatore De Pellegrino, il mito del Bar Sottozero. Un ricordo imperfetto sul filo della nostalgia

by Enrico Ciccarelli

Nel giorno in cui i prati di Foggia tornano a essere bagnati di sangue giovane mi piace ricordare un nostro concittadino che ci ha lasciato in età pressoché veneranda. Mi riferisco a Salvatore De Pellegrino. Un nome che forse non vi dirà molto, e che molti di voi non riusciranno a inquadrare nemmeno quando vi dirò che parliamo dello storico barista del Sottozero.

Già, che ne sanno i giovani del Sottozero di via Cirillo? Di quel bar che non aveva tavolini né fuori né dentro, ma era sempre pieno come un uovo? Perché serviva il miglior caffè della città, perché nella lunga e torrida estate foggiana pre-Occhito offriva i suoi gelati da passeggio al cioccolato e limone (potrà sembrarvi un’accoppiata bizzarra, ma in realtà era buonissima, e in ogni caso i gusti disponibili erano sei o sette in tutto) e il tè freddo con la granita di limone. Leccornie che avevano pochi rivali; c’era il Pan-drion di De Filippo, in  via Quattro Novembre, c’era l’immortale granita di caffè con panna dello Chez Tony di Tony De Mita, ma era ancora di là da venire il gianduia del Bar Haiti, sotto i portici di via Lanza. L’aperitivo (Biancosarti o Bitter San Pellegrino rosso, quando i coloranti erano un must) era il regno del Bar Cavour all’angolo, mentre i vitelloni locali stazionavano fra i panni verdi dei biliardi del Povia.

Lo so, è il profumo del ricordo che cambia in meglio, come dice Guccini: quella Foggia di cinquanta-cinquantacinque anni fa era un luogo inospitale e pieno di limiti, con una delinquenza selvatica e in bilico fra guapparìa e stupidità che la rendeva non meno pericolosa dell’attuale, un discorso pubblico asfittico e compresso (la pagina, talora due, della Gazzetta del Mezzogiorno, quella del Tempo) e gli abituri dei braccianti che da lì sciamavano in piazza Cesare Battisti per farsi misurare le braccia dagli scherani del latifondista.

Ben poco di cui avere nostalgia, quindi; ma in quella fine anni Sessanta-inizio Settanta c’era in giro una cosa ormai diventata infrequente: la speranza. C’era una comunità che cominciava a divenire città, da paesone che era. Il Sottozero di Gildo Monachese, con le sue vetrine luccicanti e i banchi in alluminio splendenti e sempre perfettamente puliti era un tempio di questa trasformazione, e Salvatore ne era il sommo sacerdote. Un omaccione gentile e sempre sorridente, che ad onta della stazza si muoveva dietro il bancone con la leggerezza della libellula.

Noi adolescenti rompiscatole ci coccolavamo con i cornetti all’albicocca e alla ciliegia («una corna a te e una a me») e quando (spesso) eravamo senza una lira chiedevamo dei sorsi d’acqua. Salvatore aveva la pazienza di Giobbe per sopportare le nostre richieste, che naturalmente soddisfaceva dopo quelle del pubblico pagante; però quand’era di genio (cioè quasi sempre) ci riempiva il bicchierino di vetro spesso con la magia del selz, e in particolari circostanze ce lo guarniva con un po’ di scorza di limone, proprio come se fossimo grandi.

Sì, perché Salvatore era un barista che non era di queste parti. Per carità, era foggiano fino al midollo, ma faceva il suo mestiere all’americana, come i baristi dei film a cui il protagonista si confessa fra un bourbon e l’altro, come il barista di un celeberrimo quadro di Hopper, sola compagnia nella desolata solitudine urbana  Salvatore parlava con tutti e di tutto, a cominciare dal Foggia di Fesce e Maestrelli per finire alla politica.

Era di sinistra, Salvatore. Non vorrei che la memoria mi tradisse, ma credo che una volta si sia anche candidato come indipendente nelle liste del Pci alle Comunali. Tutti facevano a gara a promettergli il voto, ma a Foggia raramente un successo di critica equivale a un successo di pubblico. E fuori dalla Balena Bianca rimanevano gli spiccioli. Se se la prese a male non lo diede a vedere. E ora, sulla soglia dei novant’anni, è passato dall’altra parte di quel bancone di cui nessuno di noi riesce a vedere il retro, non con gli occhi aperti. Che dire? Grazie, Salvatore: per avere insegnato a tre generazioni di noi che tutto viene meglio con la gentilezza, che basta poco a migliorare una giornata, una persona, una città. Grazie di cuore per ogni sorriso, per ogni cortesia, per ogni bollicina di selz. Ti sia lieve la terra.

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