Sotto il nome di Amore. Il femminicidio-suicidio di Novoli e lo scandalo Paul Haggis

by Enrico Ciccarelli

«Ma si amavano», strilla in prima pagina un quotidiano di tradizione a proposito della tragedia di Novoli dove il marito ha ucciso la moglie con una coltellata e poi, dopo la frase di rito a mammà («Ho fatto un gran casino») si è dato fuoco in macchina, lasciando affidati alla pietà e all’amore dei nonni il suo bambino di due anni e la sua bambina di sette. L’idea che il possesso, il controllo, il dominio abbiano qualcosa a che vedere con l’amore è dura a morire, e non per caso.

È fra le più nefaste costruzioni del maschilismo patriarcale. Imbelletta una costruzione ubriaca e maniacale di adolescenti mai diventati adulti, legittimati da un’improbabile passione a ogni tipo di abuso, vessazione e delirio. Può darsi, e statisticamente è una buona probabilità, che la causa scatenante del litigio letale nel Salento sia stato il mix di cellulari e social: forse un messaggio sul cellulare di lui, forse un commento instagram su una foto di lei.

È l’effetto paradossale e cannibalesco per cui rapporti privi di autenticità e di verità vengono fagocitati da mondi virtuali e distorsivi. Coppie di amanti, fidanzati, coniugi, inconsapevoli del monito di Jago a Otello («siate cauto, signore, contro la gelosia. È un mostro dallo sguardo venefico, che corrompe e abborre l’alimento di cui si pasce»), compulsano smartphone e profili altrui alla ricerca di indizi, dettagli, sospetti che comprovino la loro intima consapevolezza di non valer nulla, in assoluto e agli occhi dell’altro. E anche quando questa pratica turpe è reciproca, anche quando l’ossessione del controllo è traslata, per contagio o per delega, sulle donne, non c’è dubbio alcuno su chi sia il vero padrone del gioco.

Perché la piena legittimazione del potere maschile corrisponde a una sindrome di Stoccolma di proporzioni colossali, pandemiche. Anche il virgolettato del titolo citato è ripreso da quello che dice la madre (!) dell’uccisa sul cadavere ancora caldo della sua progenie. Si capisce bene, allora, perché la risposta dello Stato di fronte agli allarmi sia lenta, tardiva e a volte sconsiderata, perché i violenti, gli stalker e persino gli stupratori non subiscano alcun tipo di ostracismo sociale. Al contrario, si potrebbe quasi pensare che comportamenti abietti del genere facciano punteggio, tanto il mondo è pieno di donne che dicono e si dicono «con me non lo farà», e non è mai vero.

È per lo stesso motivo che tanta gente è venuta giù dal pero per le accuse di violenza sessuale rivolte a Paul Haggis, il regista statunitense arrestato a Ostuni. Come tutti, non so cosa sia successo, nel lussuoso B&B della Città Bianca e non so cosa pensare della denuncia presentata da una trentenne inglese che il premio Oscar avrebbe sequestrato e stuprato, né su quali basi l’interessato si proclami totalmente innocente.

So che questo signore ultrasessantacinquenne, idolatrato da una certa Puglia perché crociato anti-Ilva, è stato denunciato per molestie di varia gravità (dallo stupro all’harassment) da ben quattro donne, al punto che negli Usa del «me too» è diventato –come dice lui stesso- un paria. Ma per noi, italiani brava gente, lontani da questi isterismi femministi, la cosa non è un problema. Anzi non si contano gli attestati di riconoscenza e una certa quantità di finanziamenti pubblici per la prestigiosa presenza del Premio Oscar. Per quanto abbiamo letto, vengono anche da Apulia Film Commission, di recente al centro di sgradevoli vicende e litigi interni per cui sono stati chiamati in causa il sessismo e la violenza di genere.

Intendiamoci, le accuse di cui è stato fatto bersaglio Haggis non hanno finora portato ad alcuna condanna, né in sede penale né in sede civile. Ma non si tratta di vicende segrete, occulte, inconoscibili. Una banalissima google search permette di ritrovare articoli sul tema usciti già quattro anni fa. Ma cosa vuoi che sia? Ci mettiamo a fare le pulci a un premio Oscar solo perché «ama» e per motivi incomprensibili le donne da felici beneficiarie della sua augusta virilità ci ripensano e lo denunciano, le sventate?

Per commentare questo sconcio, che in un Paese e in una Regione normale produrrebbero più di una lettera di dimissioni, non troviamo parole migliori di quelle che lo stesso Haggis ebbe a pronunciare sul «caso Weinstein»: «Anche se tutti pensano che sia un comportamento vile, ci dovremmo concentrare su coloro che sono stati collusi con lui e che potrebbero averlo protetto. Per me, sono colpevoli quanto lui e in alcuni casi lo sono di più, se posso dirlo. Voglio dire, era un predatore e un predatore è un predatore. Ma che dire di quelli che preferirono guardare dall’altra parte?» Parole sante, caro Paul. Le sottoscriviamo

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