Buongiorno, compagne e compagni di escursione nei prati (o nelle selve, o nelle paludi, o nelle sabbie mobili; dipende) della poesia. Per chi scrive dicembre è un mese particolare: è quello in cui se ne sono andati, in anni diversi, tre esseri non più viventi che sono stati fondamentali nella mia esistenza. Il curioso mix di tenerezza, apprensione e nostalgia che mi ridesta il loro ricordo in questo mese è stato espresso in modo mirabile (a cos’altro credete che servano i poeti? A dire molto meglio di quanto potremmo noi ciò che pensiamo e sentiamo) da Emily Dickinson, poetessa di così vasta e luminosa maestà da far ritenere quasi necessario che la poesia sia stata l’unica sostanza della sua non lunga esistenza. Sarà perché «in qualche modo è antica inimicizia fra la grande opera e la vita» come scrive Rainer Maria Rilke, ma sta di fatto che Emily, nel corso dei suoi cinquantacinque anni di vita, fece ben poco, oltre a concepire più di mille e ottocento poesie, solo sette delle quali pubblicate non postume.
Non si mosse praticamente mai dalla natia Amherst, piccolo centro del Massachusetts; amò, sembra solo platonicamente, una donna (l’amica Susan Gibert) e due uomini (il reverendo Charles Wadsworth e il giudice Otis Phillips Lord) e non ebbe altra occupazione che la scrittura. Questa è la splendida lirica che descrive certi miei momenti
IL PIU’ DOLCE, IL PIU’ SCONSOLATO SUONO
Il più dolce, il più sconsolato suono
Il suono più sfrenato
Sono gli uccelli a farlo in primavera
Al delizioso finire della notte-
Là, sulla linea tra marzo e aprile-
Quel confine incantato
Oltre il quale l’estate va esitando-
Vicina, quasi troppo celestiale.
Ci fa pensare a tutti i nostri morti
Che qui con noi vagarono
Divenuti crudelmente più cari
Per la magia della separazione.
Ci fa pensare a quello che avevamo
E a ciò che compiangiamo.
Quasi vorremmo che tutte quelle voci
Di sirene svanissero lontano.
Un orecchio può spezzare un cuore,
lesto come una lancia.
Ah, se l’orecchio non avesse un cuore
Così pericolosamente vicino.
La separazione ci rende più cari coloro che abbiamo perduto. E importa poco se si tratti di perdite legate all’estrema sentenza o ai tumulti e alle beffe della vita. È che la fragilità di ciò che passa, la precarietà di ciò che non riusciamo a trattenere è parte costitutiva ed essenziale del senso della vita. «Passerai, e in ciò sta la bellezza» ha scritto Wislawa Szymborska in una delle sue poesie più belle. E alla luce di questo ci viene facile intendere cosa dica Nazim Hikmet, un poeta capace come nessun altro di legare amore privato e cosmico, epos e minime gioie, nella sua
LE FOGLIE DEGLI IPPOCASTANI
Veder cadere le foglie mi lacera dentro
soprattutto le foglie dei viali
soprattutto se sono ippocastani
soprattutto se passano dei bimbi
soprattutto se il cielo è sereno
soprattutto se ho avuto, quel giorno, una buona notizia
soprattutto se il cuore, quel giorno, non mi fa male
soprattutto se credo, quel giorno, che quella che amo mi ami
soprattutto se quel giorno mi sento d’accordo con gli uomini e con me stesso
veder cadere le foglie mi lacera dentro
soprattutto le foglie dei viali dei viali d’ippocastani.
Già. Ed è ancora più bella e delicata (non sono un patito degli stereotipi di genere, ma esiste un’obiettiva differenza nel modo in cui poete e poeti descrivono le emoziobi) la maniera in cui l’eccelsa Antonia Pozzi, parla di questo
DESIDERIO DI COSE LEGGERE
Giuncheto lieve biondo
come un campo di spighe
presso il lago celeste
e le case di un’isola lontana
color di vela
pronta a salpare –
Desiderio di cose leggere
nel cuore che pesa
come pietra
dentro una barca –
Ma giungerà una sera
a queste rive
l’anima liberata
senza piegare i giunchi
senza muovere l’acqua o l’aria
salperà – con le case
dell’isola lontana
per un’alta scogliera di stelle.
Direi che le case color di vela bastano ad attestare la formidabile levatura di questa grande poeta, che insegnò il coraggio al cielo e alla terra ingerendo dei barbiturici innanzi all’Abbazia di Chiaravalle a soli 26 anni. Come Dickinson, anche Pozzi non vide pubblicata la sua opera in vita. Come Dickinson, anche Pozzi subì l’oltraggio della manipolazione post-mortem (la sua famiglia fece di tutto per nascondere lo scandalo del suicidio). Come Dickinson, ha vinto lei. Penso che Antonia ci accompagnerà spesso nelle nostre escursioni (me l’ha ricordata una mirabile amica). Per il momento annoto che gli splendidi versi che avete letto sono datati con precisione: li scrisse il primo febbraio del 1934, nel giorno che ventiquattro anni dopo sarebbe stato quello della mia nascita. Se credete si tratti di una coincidenza (e avete ragione, sia chiaro) vi consiglio di curiosare un po’ fra i misteri del teorema di Fermat e dell’entanglement. Perché, come dice il vecchio Jorge Luis, «Nulla ci dice addio, nulla ci lascia». E tutti noi permarremo, anche quando non muoveremo acqua o aria.
Vorrei concludere la nostra camminata, scusandomi per l’eventuale malinconia procurata (ma voi conoscete qualcosa di più dolce della malinconia?) con una poesia che parla del reciproco della nostalgia: l’attesa, quella che, secondo la volpe del Piccolo Principe, è l’unica forma reale della felicità. È descritta, a mio parere benissimo, nei versi di un «poeta non laureato», che a mia scienza ha pubblicato solo sulle ospitali pagine virtuali di Bonculture: sto parlando di Massimo Fragassi, di cui conosco solo la gentilezza e la competenza giuridica. Questa sua lirica è stata pubbicata su questo sito un po’ di anni fa. Mi pare che una riedizione si imponga.
LA NOTTE PRIMA DEL PRIMO BACIO
L’ultima sigaretta si spegne
alla luce intermittente
di un lampione
mentre camminiamo tenendoci
per mano
con la cura e il timore
dello scalatore per la roccia,
che ad ogni passo
si avvinghia alla presa
come stringersi alla vita.
Mi saluti davanti al portone
chiedendomi se mi sono annoiato:
ti guardo negli occhi,
vorrei darti un bacio
e invece ti abbraccio
e torno a casa,
stringendo i pugni in tasca
per conservare il tuo calore.
Passo dopo passo
abbandono il tuo respiro
con l’ansia del bambino
a cui rubano il pallone,
e salgo le scale
volando sui gradini
con l’unico pensiero
d’incontrarti domani.
Osservo la porta di casa
come si fissa un muro
di frontiera
cui tocca il destino verticale
di dividere il tempo
in un prima e in un dopo,
di scindere lo spazio pieno
da quello vuoto,
poi d’improvviso la apro
e resto fermo sull’uscio
con la stessa suggestione
di chi al risveglio
teme di dimenticare
un sogno
e nell’attimo sospeso
tra il buio e la veglia
cerca una penna
per fermare il tempo.
Una brezza leggera
solleva la tenda
e sembra che il vento
ricopra la stanza
del tuo odore,
allora respiro, lentamente,
con la nostalgia di un soldato
al fronte,
mentre il cuore rimbomba
e annulla le distanze,
perché tutto ciò che serve
è racchiuso in un soffio
Non vi fate fuorviare dai poeti: non c’è bacio vero che non sia il primo, e non c’è notte che non sia una notte «prima di qualcosa». Per quanto vi sembri che le cose sgocciolino sempre uguali intorno a voi in una morta gora di insulsa ripetitività, il soffio in cui c’è tutto quello che serve è sempre il primo. E lascia il testimone solo all’ultimo. Non trattenete il fiato: non lo potete conservare, solo spargere. Felice settimana, amiche e amici miei.