Sui sentieri della nostalgia e della tenerezza. E della felicità dell’attesa

by Enrico Ciccarelli

Buongiorno, compagne e compagni di escursione nei prati (o nelle selve, o nelle paludi, o nelle sabbie mobili; dipende) della poesia.  Per chi scrive dicembre è un mese particolare: è quello in cui se ne sono andati, in anni diversi, tre esseri non più viventi che sono stati fondamentali nella mia esistenza. Il curioso mix di tenerezza, apprensione e nostalgia che mi ridesta il loro ricordo in questo mese è stato espresso in modo mirabile (a cos’altro credete che servano i poeti? A dire molto meglio di quanto potremmo noi ciò che pensiamo e sentiamo) da Emily Dickinson, poetessa di così vasta e luminosa maestà da far ritenere quasi necessario che la poesia sia stata l’unica sostanza della sua non lunga esistenza. Sarà perché «in qualche modo è antica inimicizia fra la grande opera e la vita» come scrive Rainer Maria Rilke, ma sta di fatto che Emily, nel corso dei suoi cinquantacinque anni di vita, fece ben poco, oltre a concepire più di mille e ottocento poesie, solo sette delle quali pubblicate non postume.

Non si mosse praticamente mai dalla natia  Amherst, piccolo centro del Massachusetts; amò, sembra solo platonicamente, una donna (l’amica Susan Gibert) e due uomini (il reverendo Charles Wadsworth e il giudice Otis Phillips Lord) e non ebbe altra occupazione che la scrittura. Questa è la splendida lirica che descrive certi miei momenti

IL PIU’ DOLCE, IL PIU’ SCONSOLATO SUONO

Il più dolce, il più sconsolato suono

Il suono più sfrenato

Sono gli uccelli a farlo in primavera

Al delizioso finire della notte-

Là, sulla linea tra marzo e aprile-

Quel confine incantato

Oltre il quale l’estate va esitando-

Vicina, quasi troppo celestiale.

Ci fa pensare a tutti i nostri morti

Che qui con noi vagarono

Divenuti crudelmente più cari

Per la magia della separazione.

Ci fa pensare a quello che avevamo

E a ciò che compiangiamo.

Quasi vorremmo che tutte quelle voci

Di sirene svanissero lontano.

Un orecchio può spezzare un cuore,

lesto come una lancia.

Ah, se l’orecchio non avesse un cuore

Così pericolosamente vicino.

La separazione ci rende più cari coloro che abbiamo perduto. E importa poco se si tratti di perdite legate all’estrema sentenza o ai tumulti e alle beffe della vita. È che la fragilità di ciò che passa, la precarietà di ciò che non riusciamo a trattenere è parte costitutiva ed essenziale del senso della vita. «Passerai, e in ciò sta la bellezza» ha scritto Wislawa Szymborska in una delle sue poesie più belle. E alla luce di questo ci viene facile intendere cosa dica Nazim Hikmet, un poeta capace come nessun altro di legare amore privato e cosmico, epos e minime gioie, nella sua

LE FOGLIE DEGLI IPPOCASTANI

Veder cadere le foglie mi lacera dentro
soprattutto le foglie dei viali
soprattutto se sono ippocastani
soprattutto se passano dei bimbi
soprattutto se il cielo è sereno

soprattutto se ho avuto, quel giorno, una buona notizia
soprattutto se il cuore, quel giorno, non mi fa male
soprattutto se credo, quel giorno, che quella che amo mi ami
soprattutto se quel giorno mi sento d’accordo con gli uomini e con me stesso
veder cadere le foglie mi lacera dentro
soprattutto le foglie dei viali dei viali d’ippocastani.

Già. Ed è ancora più bella e delicata (non sono un patito degli stereotipi di genere, ma esiste un’obiettiva differenza nel modo in cui poete e poeti descrivono le emoziobi) la maniera in cui l’eccelsa Antonia Pozzi, parla di questo

DESIDERIO DI COSE LEGGERE

Giuncheto lieve biondo

come un campo di spighe

presso il lago celeste

e le case di un’isola lontana

color di vela

pronta a salpare –

Desiderio di cose leggere

nel cuore che pesa

come pietra

dentro una barca –

Ma giungerà una sera

a queste rive

l’anima liberata

senza piegare i giunchi

senza muovere l’acqua o l’aria

salperà – con le case

dell’isola lontana

per un’alta scogliera di stelle.

Direi che le case color di vela bastano ad attestare la formidabile levatura di questa grande poeta, che insegnò il coraggio al cielo e alla terra ingerendo dei barbiturici innanzi all’Abbazia di Chiaravalle a soli 26 anni. Come Dickinson, anche Pozzi non vide pubblicata la sua opera in vita. Come Dickinson, anche Pozzi subì l’oltraggio della manipolazione post-mortem (la sua famiglia fece di tutto per nascondere lo scandalo del suicidio). Come Dickinson, ha vinto lei. Penso che Antonia ci accompagnerà spesso nelle nostre escursioni (me l’ha ricordata una mirabile amica). Per il momento annoto che gli splendidi versi che avete letto sono datati con precisione: li scrisse il primo febbraio del 1934, nel giorno che ventiquattro anni dopo sarebbe stato quello della mia nascita. Se credete si tratti di una coincidenza (e avete ragione, sia chiaro) vi consiglio di curiosare un po’ fra i misteri del teorema di Fermat e dell’entanglement. Perché, come dice il vecchio Jorge Luis, «Nulla ci dice addio, nulla ci lascia». E tutti noi permarremo, anche quando non muoveremo acqua o aria.

Vorrei concludere la nostra camminata, scusandomi per l’eventuale malinconia procurata (ma voi conoscete qualcosa di più dolce della malinconia?) con una poesia che parla del reciproco della nostalgia: l’attesa, quella che, secondo la volpe del Piccolo Principe, è l’unica forma reale della felicità. È descritta, a mio parere benissimo, nei versi di un «poeta non laureato», che a mia scienza ha pubblicato solo sulle ospitali pagine virtuali di Bonculture: sto parlando di Massimo Fragassi, di cui conosco solo la gentilezza e la competenza giuridica. Questa sua lirica è stata pubbicata su questo sito un po’ di anni fa. Mi pare che una riedizione si imponga.

LA NOTTE PRIMA DEL PRIMO BACIO

L’ultima sigaretta si spegne

alla luce intermittente

di un lampione

mentre camminiamo tenendoci

per mano

con la cura e il timore

dello scalatore per la roccia,

che ad ogni passo

si avvinghia alla presa

come stringersi alla vita.

Mi saluti davanti al portone

chiedendomi se mi sono annoiato:

ti guardo negli occhi,

vorrei darti un bacio

e invece ti abbraccio

e torno a casa,

stringendo i pugni in tasca

per conservare il tuo calore.

Passo dopo passo

abbandono il tuo respiro

con l’ansia del bambino

a cui rubano il pallone,

e salgo le scale

volando sui gradini

con l’unico pensiero

d’incontrarti domani.

Osservo la porta di casa

come si fissa un muro

di frontiera

cui tocca il destino verticale

di dividere il tempo

in un prima e in un dopo,

di scindere lo spazio pieno

da quello vuoto,

poi d’improvviso la apro

e resto fermo sull’uscio

con la stessa suggestione

di chi al risveglio

teme di dimenticare

un sogno

e nell’attimo sospeso

tra il buio e la veglia

cerca una penna

per fermare il tempo.

Una brezza leggera

solleva la tenda

e sembra che il vento

ricopra la stanza

del tuo odore,

allora respiro, lentamente,

con la nostalgia di un soldato

al fronte,

mentre il cuore rimbomba

e annulla le distanze,

perché tutto ciò che serve

è racchiuso in un soffio

Non vi fate fuorviare dai poeti: non c’è bacio vero che non sia il primo, e non c’è notte che non sia una notte «prima di qualcosa». Per quanto vi sembri che le cose sgocciolino sempre uguali intorno a voi in una morta gora di insulsa ripetitività, il soffio in cui c’è tutto quello che serve è sempre il primo. E lascia il testimone solo all’ultimo. Non trattenete il fiato: non lo potete conservare, solo spargere. Felice settimana, amiche e amici miei.

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