Te piace ‘o presepe? Il dono del Poverello, il più grande

by Enrico Ciccarelli

I canali televisivi sono diventati troppi perché si possa controllare se anche quest’anno da qualche parte sarà trasmesso «Natale in casa Cupiello», immortale capolavoro di Eduardo De Filippo, che come tutti i capolavori non fu pensato come tale. Nella «Cantata dei giorni pari» la farsesca Natività festeggiata dall’anima ingenua di Luca Cupiello, prototipo dell’uomo mite e ignaro della prima produzione eduardiana, era atto unico di sapore scarpettiano, nel quale era quasi completamente sottotraccia la vena malinconica che invece intride le ultime versioni, con un Eduardo sempre più canuto, le sue diverse muse, da Regina Bianchi a Pupella Maggio, a interpretare l’energica Concetta e Luca De Filippo, figlio in scena e all’anagrafe, nei panni di Nennillo. Era lui a rispondere con dispettosa negatività alla domanda del padre: «Te piace ‘o presebbio?». Luca-Eduardo ne decanta le meraviglie («ci metto l’acqua vera») ne rivendica la fatica («Lucariè, ma tu stisse facenno ‘o Parco ‘a Rimembranza?», gli ha appena detto sua moglie). Invano. Ai distratti, ai frettolosi, a quelli che sono «avanti» il presepe piace poco. Forse perché non hanno capito cos’è e che vuol dire.

Correva l’anno 1233, secondo la tradizione, quando Francesco d’Assisi portò i suoi calzari e l’umile manto che copriva il suo corpo piagato in quel di Greccio, nel Reatino, borgo povero dell’Osso d’Italia, dove il dorso dell’Appennino lascia poca terra fertile lungo le sue balze. Terra di neve, di alpeggi, di pascoli. Ed è lì che il Santo decide di spiegare il Natale, il nucleo centrale della Rivelazione cristiana, che con sagacia i primi devoti collocarono in sovrapposizione al Dies Soli invicti, che festeggiava il Solstizio d’Inverno.

Contrariamente a quello che si potrebbe ritenere, i Vangeli sinottici dedicano pochissimo spazio alla Natività. L’unico a parlarne è Luca, che se ne occupa soprattutto per illustrare la conformità dell’Avvento con le profezie bibliche sul Messia. C’è Betlemme, c’è la mangiatoia, ci sono gli angeli che chiamano a raccolta i pastori, e c’è anche la precisazione che l’ebreo Jeshua viene regolarmente circonciso. Ma niente Stella Cometa, niente Re Magi, niente neve (anche perché in Palestina nevica mediamente una volta ogni secolo e mezzo). Molte di queste tradizioni sono contenute nei Vangeli apocrifi (soprattutto il Protovangelo di Giacomo), ma la neve no. Quella ce la mette Greccio, perché anche nel dicembre del 1233 ci faceva un freddo cane e una coltre bianca copriva case e persone.

Naturalmente la Sacra Rappresentazione che il Santo delle Stimmate suscita nel borgo non è l’esordio iconico di Gesù Bambino (probabilmente da collocarsi nel III secolo, nella Catacomba di Priscilla), ma l’intuizione di Francesco è per l’appunto di renderla presente, di fare svolgere a due contadini i ruoli di Giuseppe e Maria, di tenere un bimbo appena nato in luogo del Redentore. È un atto temerario, che come tante altre proposizioni del Santo ha sapore ereticale. Il Poverello è stato a lungo in odore di eresia, in realtà, e solo un sogno, secondo la leggenda, aveva convinto Papa Innocenzo III, scomunicatore di Re e Imperatori se mai ve ne furono, a tollerare e accettare, non senza emendamenti, la Regola del suo Ordine, con gli elogi a Madonna Povertà.  

Il teocrate era morto da tempo, e Gregorio IX, regnante a quel tempo sul trono di Pietro, sapeva da tempo di avere bisogno degli ordini monastici e delle loro rinnovate fraternità: ma la Chiesa era ancora quella dei sacerdoti che dicevano Messa (in latino!) dando le spalle ai fedeli. Una Chiesa potente fra i potenti, che agli umili mostrava un viso distante e arcigno. L’eresia, la magia, la stregoneria erano spesso la risposta degli emarginati a liturgie incomprensibili e aliene.

Francesco rompe lo schema. La pietra fondante dei Vangeli, la nascita del Cristo, diviene, da vicenda remota e misteriosa, cosa visibile, immediata, percepibile. Avviene qui. Avviene ora. Non c’è nascita che non sia Quella nascita, non c’è bambino che non sia Quel bambino. Il Cielo è giunto sulla terra non per una notte, non per un momento, ma per sempre. E chiama non ad una adorazione immota ed estatica, ma a un ruolo attivo, partecipe, solidale. Il presepe che facciamo nelle nostre case, con le sorgenti alimentate da enteroclismi o figurate da pezzi di specchio, con la carta verde e marrone simulacro delle montagne, con il pescivendolo e il fornaio, la stiratrice e l’acquaiolo e quant’altre figure possa partorire la fantasia di San Gregorio Armeno, è una piccola Arca dell’Alleanza, il tabernacolo in cui si rinnova il patto dell’umanità con il Creatore fattosi Uomo, ossia dell’umanità con se stessa.

È inevitabile che questo uso rischi derive puramente estetiche, o addirittura idolatriche, quasi che cartapesta, ceramica o plastica possano davvero essere infuse di santità o di divinità. Di quella santità e divinità possono essere però memoriale, e a insegnarcelo non poteva essere che Francesco, il Santo profeta e lacero che ci ha rivelato la fraternità universale che connette il Creato, che ha chiamato fratelli e sorelle il Sole, la Luna e la Morte. Per questo non è il caso che vi sentiate stupidi quando, a mezzanotte di oggi, lascerete che il più piccolo fra gli ospiti del cenone deponga il bambinello nella sua mangiatoia. Stupidi sono quelli a cui il presepe non piace. E so che i nostri lettori non lo sono, come dimostra anche la loro pazienza nel leggermi e nel sopportare le due parole più dette in questi giorni: le più belle, spesso le più insincere. Buon Natale. A tutti voi, a ciascuno di voi.

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