Un bel tacer fu spesso scritto. Poesie sul silenzio

by Enrico Ciccarelli

13 novembre, Giornata mondiale della gentilezza. Potrete celebrarla degnamente accettando con benevola tolleranza questa ennesima tappa delle mie incursioni nei territori della poesia che vi infliggo a cadenza settimanale. Per parte mia, omaggio la ricorrenza con una delle mirabili filastrocche di Bruno Tognolini, che in un bell’incontro foggiano ci spiegò come la nostra attrazione per il ritmo, le rime e la metrica dipende probabilmente dall’ancestrale ricordo del battito del cuore di nostra madre, che durante la gestazione ci rassicurava.

Non so se sia vero, ma mi piace l’idea che la poesia e la canzone siano in qualche modo collegati a un regredire a quando non eravamo nati, prima che la vita costruisse con noi e su di noi le sue architetture. Ma vi avevo annunciato Tognolini: ecco la sua

FILASTROCCA PER DIRE GRAZIE

Grazie alle mani, perché tu hai fatto.
Grazie alla bocca, perché tu hai parlato.
Grazie alle orecchie, perché hai ascoltato.
E grazie ai piedi, perché sei andato.

Grazie alle ore e ai minuti perché
era il tuo tempo e l’hai speso per me.

Tuttavia non è la gentilezza l’argomento della nostra conversazione di oggi, benché ad essa non sia contrapposto. Parleremo infatti del silenzio. «Un bel tacer non fu mai scritto», ammonisce il proverbio. È un detto che alcuni vogliono far risalire a Dante Alighieri, frequente fonte di legittimazione e auctoritas per le espressioni della lingua di cui fu padre. Ma in realtà sarebbe assai più tardo, del librettista veneziano seicentesco Iacopo Badoèr. Di sicuro, almeno nel suo significato letterale, l’espressione è falsa.  Il silenzio è infatti al centro di diverse poesie, e il nostro excursus ne riprodurrà alcune.

Partiremo da Kalhil Gibran, poeta (ma meglio sarebbe dire poliedrico artista) libanese vissuto per molta parte della sua vita a New York. La sua vastissima popolarità, dovuta anche, come per Tolkien, all’adozione del suo Il Profeta da parte della controcultura americana dei Cinquanta-Sessanta, lo tiene sempre un po’ in bilico tra i Baci Perugina e un certo misticismo esoterico. Ma fu un esempio fulgido del tentativo di coniugare la grande cultura araba (lo so, i più infelici tra voi credono si tratti di una subcultura intrisa di fanatismo e di arretratezza; ma senza di essa resterebbe ben poco di ciò che siamo) con l’Occidente. Il fatto che il suo verso più celebre, Metà di quel che dico non ha senso, ma lo dico perché l’altra metà possa giungere a te, sia stato fonte di ispirazione per John Lennon, fa capire di quali grandezze stiamo parlando.

ESISTE QUALCOSA DI PIU’ GRANDE

Esiste qualcosa di più grande e più puro
rispetto a ciò che la bocca pronuncia.
Il silenzio illumina l’anima,
sussurra ai cuori e li unisce.
Il silenzio ci porta lontano da noi stessi,
ci fa veleggiare
nel firmamento dello spirito,
ci avvicina al cielo;
ci fa sentire che il corpo
è nulla più che una prigione,
e questo mondo è un luogo d’esilio.

Poesia ispirata dal misticismo gnostico, fondato sull’Errore della Creazione, tanto diverso dalla nostra idea Provvidenziale del tempo e del cosmo. Se il mondo è illusione e inganno, il compito del saggio è sottrarre e sottrarsi. Anche preferendo il silenzio alla contaminazione delle parole.

D’altra natura è il silenzio di cui parla Fernando Pessoa, con Camoës il più grande poeta lusitano di ogni tempo. Forse più un enigma che un uomo, il nome anagrafico di Pessoa vuol dire persona, termine che a sua volta deriva dalla parola etrusca phersu, che significa maschera. Magari fu per questo che in vita scrisse con numerosi eteronimi diversi, ciascuno dei quali caratterizzato da stili e contenuti distinti, riuscendo così a tenere fede alla sua quartina più celebre e potente:

Il poeta è un fingitore.

Finge così completamente

Che arriva a fingere che sia dolore

Il dolore che davvero sente.

Poeta ermetico se mai ve ne furono, occultista, astrologo, massone e rosacrociano, Pessoa è davvero Una sola moltitudine, come titola il fantastico libro Adelphi che in due volumi ne raccoglie il meglio. Ed ecco le sue parole sul silenzio.

PENSO A TE NEL SILENZIO DELLA NOTTE

Penso a te nel silenzio della notte, quando tutto è nulla,
e i rumori presenti nel silenzio sono il silenzio stesso,
allora, solitario di me, passeggero fermo
di un viaggio senza Dio, inutilmente penso a te.
tutto il passato, in cui fosti un momento eterno,
è come questo silenzio di tutto.
tutto il perduto, in cui fosti quel che più persi,
è come questi rumori,
tutto l’inutile, in cui fosti quel che non doveva essere,
è come il nulla che sarà in questo silenzio notturno.
ho visto morire, o sentito che morirono,
quanti amai o conobbi,
ho visto non saper più nulla di quelli che un po’ andarono
con me, e poco importa se fu un’ora o qualche parola;
o un passeggio emotivo e muto,
e il mondo oggi per me è un cimitero di notte,
bianco e nero di tombe e alberi e di estraneo chiardiluna
ed è in questa quiete assurda di me e di tutto
che penso a te.

«Tutto il perduto, in cui fosti tu quel che più persi». Non credo di aver mai letto un verso che più di questo illustri la spietata desolazione del rimpianto. Ma andiamo in più spirabil aere a incontrare la grande e sventurata Alda Merini, fra le poete più citate (e –con Bukowsky– contraffatte) sul web. Versificatrice geniale e donna eccessiva, si spinse oltre i suoi limiti, e di sicuro oltre i limiti della società in cui visse, venendo in parte sollevata dalla miseria solo grazie a provvidenze pubbliche. Questa è la sua

HO BISOGNO DI SILENZIO

Ho bisogno di silenzio
come te che leggi col pensiero
non ad alta voce
il suono della mia stessa voce
adesso sarebbe rumore
non parole ma solo rumore fastidioso
che mi distrae dal pensare.
Ho bisogno di silenzio
esco e per strada le solite persone
che conoscono la mia parlantina
disorietate dal mio rapido buongiorno
chissà, forse pensano che ho fretta.
Invece ho solo bisogno di silenzio
tanto ho parlato, troppo
è arrivato il tempo di tacere
di raccogliere i pensieri
allegri, tristi, dolci, amari,
ce ne sono tanti dentro ognuno di noi.
Gli amici veri, pochi, uno?
sanno ascoltare anche il silenzio,
sanno aspettare, capire.
Chi di parole da me ne ha avute tante
e non ne vuole più,
ha bisogno, come me, di silenzio

È capitato anche a voi, vero? Che la persona a cui avete dedicato tante delle vostre parole non le voglia più? O vi è successo di essere voi, la persona stanca di parole che un tempo vi hanno rapito, incantato e consumato? Forse l’avete vissuta (o la state vivendo) come una tragedia, ma non è il caso. È nel destino delle parole stingersi, avvizzire, tramontare, perché è destino degli esseri umani non permanere, passare, spegnersi. Forse possono diventare immortali solo le parole di cui non c’è più chi le ha pronunciate e chi ne era il destinatario. E forse è per questo che, pur sapendo che alla fine regnerà solo il silenzio noi ci affanniamo a esorcizzarlo, a contraddirlo, a romperlo. Non c’è forse in questa folle, disperata e bellissima impresa tutto il senso delle nostre vite? Vabbé, troppa filosofia. Nel salutarvi cedo al peccato preferito da Satana (according to The Devil’s advocate), ossia la vanità, e vi propongo questa mia remota lirica, sperando che la succitata giornata della gentilezza vi induca a trovarla non dico bella, ma almeno non insopportabile. Buona domenica, amiche e amici impareggiabili.

NEL SILENZIO DEI SAGGI

Ecco, il viandante smemora

nello stretto novembre,

mentre le foglie coprono il sentiero.

Di nuovo è la stagione religiosa:

il vento è austero,

l’aria indifferente.

Nemmeno il freddo ha un nome;

l’autunno vince nelle case spente,

vince nelle stazioni

sempre meno affollate,

negli sguardi dei vecchi

e nei miei campi.

Se tu hai capito che l’eterno è grigio,

se nuda è anche l’anima tua

come e più del tuo corpo,

nel silenzio dei saggi puoi imparare

che nulla è da temere più del tutto,

del ciclo che gli estremi ricongiunge,

dell’artigiano che ci preme dentro

per ricondurci all’aspra simmetria.

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