Violenza contro se stessi. Più poeti e poete suicide che poesie sul suicidio

by Enrico Ciccarelli

Una ragazza di tredici anni, in un Comune della Puglia, si è uccisa in modo atroce, impiccandosi in bagno. Non è il primo e purtroppo non sarà l’ultimo caso di queste giovani anime in boccio che, vengono travolte dalla tempesta dell’adolescenza, di questo mutamento imprevisto, improvviso e spesso ingovernabile. E non è la prima né l’ultima volta che si scatenerà sui giornali la caccia al «perché». È comprensibile: l’autorità giudiziaria deve svolgere la sua funzione, la famiglia disperata chiede di dare un senso alle proprie lacrime, la comunità si interroga.

Eppure l’immensità del mistero della morte volontaria di fronte al piccolo arrabattarsi dei cronisti ricorda il bambino che voleva svuotare il mare e metterlo con il secchio in un piccolo buco di cui parla Sant’Agostino. Un inane tentativo di arginare l’irruzione del caos inscatolandola in una spiegazione logica. Peccato che la spiegazione logica finisca quasi sempre per coincidere con il puntare il dito, con utilizzare a mo’ di colpevoli (di istigazione al suicidio, nientemeno) delle altre ragazzine che con la crudeltà degli e delle adolescenti l’hanno esclusa da chissà quale chat e le hanno bucato chissà quale appuntamento. Quasi che la loro fragilità di presunte bulle non sia pari alla fragilità remissiva della vittima.

Ma in questa tragedia di poesia ce n’è poca, e il nostro appuntamento settimanale rischia di venirne snaturato. Anche perché di poesie che parlino di suicidio non ce ne sono tante. Ovviamente c’è il Canto XIII dell’Inferno, con le anime dei suicidi tramutate in sterpi, nella quale Dante mostra una pietà e una comprensione infrequenti nella prima cantica. Ma in epoca moderna non si può prescindere da questa mirabile lirica (come sempre leggera e distaccata, come sempre intrisa d’anima) di Wislawa Szymborska.

LA STANZA DEL SUICIDA

Certo pensate che la stanza fosse vuota.

E invece c’erano tre sedie con robusti schienali.

Una lampada buona contro il buio.

Una scrivania con sopra un portafoglio, giornali.

Un Buddha sereno, un Cristo afflitto.

Sette elefanti portafortuna, nel cassetto un’agenda.

Pensate che non ci fossero i nostri indirizzi?

Pensate che mancassero libri, quadri, dischi?

E invece c’era una trombetta consolatrice in mani nere.

Saskia e il suo cordiale piccolo fiore.

La gioia, scintilla degli dèi.

Ulisse sul ripiano nel sonno ristoratore

dopo le fatiche del quinto canto.

I moralisti,

nomi scritti a lettere d’oro

sui dorsi ben conciati.

Lì accanto i politici stavano ben ritti-

E quella stanza

non sembrava priva di vie d’uscita, magari dalla porta,

né senza prospettive, magari dalla finestra.

Gli occhiali da vista erano sul davanzale.

Una mosca ronzava, ossia era ancora viva.

Pensate che almeno la lettera spiegasse qualcosa.

E se vi dico che non c’erano lettere –

e noi, gli amici – tanti -, ci ha tutti contenuti

la busta vuota appoggiata a un bicchiere.

Benché ci sia penuria di poesie sul suicidio, c’è in compenso grande abbondanza di poete e poeti morti suicidi. I grandi russi Majakovsky ed Esenin, uno morto sparandosi al cuore, l’altro recidendosi le vene dei polsi con un collo di bottiglia spezzata, lasciarono alcuni versi a mo’ di epitaffio. Ecco qui quelli di Vladimir (19 aprile 1930)

Come si dice,

l’incidente è chiuso.

La barca dell’amore

s’è spezzata

contro il quotidiano.

La vita ed io

siamo pari.

Inutile elencare

offese, dolori, torti reciproci.

Voi che restate, siate felici.

E quelli di Sergej (27 dicembre del 1925)

Arrivederci, amico mio, arrivederci.
Mio caro, sei nel mio cuore.
Questa partenza predestinata
Promette che ci incontreremo ancora.
Arrivederci, amico mio, senza mano, senza parola
Nessun dolore e nessuna tristezza dei sopraccigli.
In questa vita, morire non è una novità,
ma, di certo, non lo è nemmeno vivere. 

Furono assai più discrete, per quanto ne sappiamo, due grandissime voci della poesia americana del Ventesimo Secolo, la fragorosa Anne Sexton e la fragile e incantevole Sylva Plath. Bella, spregiudicata, coerentemente femminista, versificatrice di cristallina sapienza, Sexton ebbe per tutta la vita, dopo un’infanzia di contraddizioni e probabili abusi, la compagnia inseparabile di un disturbo bipolare che infine, dopo un vano tentativo di conforto religioso e numerosi episodi di autolesionismo, la portò a darsi la morte inalando il monossido di carbonio della sua auto, il 4 ottobre del 1974, a poco meno di 46 anni.

Delle molte poesie di Anne, ho scelto questa, che sta in Poesie d’amore, uscita nel 1969, che è forse la sua silloge più riuscita.   

Noi

Ero avvolta nella pelliccia
nera, nella pelliccia bianca
e tu mi svolgevi
e in una luce d’oro
poi m’incoronasti,
mentre fuori dardi di neve
diagonali battevano alla porta.
Mentre venti centimetri di neve
cadevano come stelle
in frammenti di calcio,
noi stavamo nel nostro corpo
(stanza che ci seppellirà)
e tu stavi nel mio corpo
(stanza che ci sopravviverà)
e all’inizio ti asciugai
i piedi con una pezza
perché ero la tua schiava
e tu mi chiamavi principessa.
Principessa!

Oh, allora
mi alzai con la pelle d’oro,
e mi disfeci dei salmi
mi disfeci dei vestiti
e tu sciogliesti le briglie
sciogliesti le redini,
ed io i bottoni,
e disfeci le ossa, le confusioni,
le cartoline del New England,
le notti di Gennaio finite alle dieci,
e come spighe ci sollevammo,
per acri ed acri d’oro,
e poi mietemmo, mietemmo,
mietemmo.

We harvested, mietemmo. Nel testo originale ripetuto due e non tre volte 

Spirò invece a meno di trentun anni, l’11 febbraio del 1963, Sylva Plath, candle in thw wind a cui la vita non mostrò il suo volto migliore. Poeta precocissima (pubblicò la sua prima poesia a otto anni), orfana di padre da bambina, la sua vita è la dimostrazione che si può essere poeti eccelsi senza cessare di essere brutali e inqualificabili bastardi. Il riferimento non è ovviamente a Plath, ma al di lei compagno,  Ted Hughes, celebrato poeta inglese di cui lei si innamorò proprio leggendo suoi componimenti. Quello che Ted fece al corpo esile e alla fragile anima di Sylva è inenarrabile (basti sapere che perse il bambino che aspettava a seguito di un pestaggio). Ma forse è persino più ripugnante quello che fece dopo, manipolando e cancellando i diari di Plath, che erano spesso uno spietato atto d’accusa nei suoi confronti. Se credete che i poeti siano buoni, scordatevelo.  Una ricostruzione del suo suicidio, effettuato dopo avere preparato latte e tartine imburrate per i figli, sostiene che Sylva non volesse davvero uccidersi, ma sperasse di essere salvata. Può darsi. Ma è un’altra cosa che non sapremo mai. Ecco comunque la delicata

IO SONO VERTICALE

Ma preferirei essere orizzontale.
Non sono un albero con radici nel suolo
succhiante minerali e amore materno
così da poter brillare di foglie a ogni marzo,
né sono la beltà di un’aiuola
ultradipinta che susciti grida di meraviglia,
senza sapere che presto dovrò perdere i miei petali.
Confronto a me, un albero è immortale
e la cima di un fiore, non alta, ma più clamorosa:
dell’uno la lunga vita, dell’altra mi manca l’audacia.

Stasera, all’infinitesimo lume delle stelle,
alberi e fiori hanno sparso i loro freddi profumi.
Ci passo in mezzo ma nessuno di loro ne fa caso.
A volte io penso che mentre dormo
forse assomiglio a loro nel modo piu’ perfetto –
con i miei pensieri andati in nebbia.
Stare sdraiata è per me piu’ naturale.
Allora il cielo ed io siamo in aperto colloquio,
e sarò utile il giorno che resto sdraiata per sempre:
finalmente gli alberi mi toccheranno, i fiori avranno tempo per me.

Concludiamo questa lunga e poco allegra carrellata con un’italiana, la romana Luciana Frezza, traduttrice e autrice di vaglia, che nel 1992 preferì il buio della morte a quello dell’incipiente cecità che le era stata diagnosticata (e non avete idea di quanto la capisca).

NOSTALGIA

Chissà in quale
canneto di carta o verde
fantasma errante coorte
falciata alla radice
al di là di quali porte
nell’andito scuro di botteghe
in disuso dietro quale
muro di eluso rione
giace il piccolo corpo
di Amore dopo l’ordita
esecuzione.

UnDirei che il muro di eluso rione vale il prezzo del biglietto. Ma parliamo di Luciana Frezza soprattutto per dar merito ad Antonio Bux, che con Giuseppe Todisco e Annasara Bucci (e la partecipazione straordinaria di Davide Grittani, ha presentato in Biblioteca la nuova collana di libri di poesia da lui diretta: Mancuspie (il termine viene da un racconto di Cortazar), che esce per i tipi della Graphe,it Edizioni e i cui primi volumi sono Un uomo pieno di morte di Giorgio Manganelli, Sonetti d’amore per King Kong, di Gino Scartaghiande e, per l’appunto, Parabola Sub di Luciana Frezza.  Sono acquistabili online a prezzi modici sul sito graphe.it Dio benedica la vita dei poeti (tranne quelli come Hughes, ben s’intenda), anche (soprattutto) quando è amara. Perché, come sapete, amiche e amici carissimi, i loro versi consolano, rispecchiano, ammolciscono le nostre, di amarezze.

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