Venti di Diritti. Luigi Manconi: «Il corpo è la sede dei diritti ed è al centro delle tensioni in tutti gli scontri politici»

by Felice Sblendorio

Luigi Manconi, in una vita intera, è stato sempre accanto ai più deboli. Accanto alle vittime, ai diritti di tutti, alle battaglie per i sommersi e i salvati nel Mediterraneo, accanto alle famiglie di Stefano Cucchi e Federico Aldrovandi, alla famiglia di Giulio Regeni. Manconi, in un percorso personale e politico fatto di corpi, diritti e comprensione del dolore, è stato accanto a chi non aveva voce, a chi non riusciva a far valere il proprio diritto. Un impegno politico il suo, prima nelle Istituzioni e poi in “A buon diritto”, la sua onlus per i diritti umani che sabato 26 marzo al MAXXI di Roma festeggia i suoi primi vent’anni di attività.

bonculture ha intervistato Luigi Manconi.

Professore, i vent’anni di “A buon diritto” sono un anniversario importante: quale idea vi ha guidati in tutto questo tempo?

Siamo partiti dalla profonda convinzione che i diritti sociali, quelli collettivi, e i diritti individuali, quelli della persona legati alla propria soggettività, fossero strettamente legati. Purtroppo, invece, nel nostro Paese si tende rovinosamente a vedere distinte e contrapposte queste due famiglie di diritti. L’attività della nostra associazione è stata sempre concentrata su un tentativo di conciliare entrambe le aree di intervento. Abbiamo lavorato molto sull’immigrazione, che è qualcosa che riguarda i diritti sociali, le condizioni di vita, di accoglienza e di inclusione nel sistema dei diritti della cittadinanza. In questi vent’anni, poi, una buona quantità delle nostre energie è stata dedicata alla denuncia di abusi di polizia all’interno del sistema penitenziario italiano e in situazioni di vita quotidiana. Parte integrante del nostro lavoro sono state le battaglie per il raggiungimento della verità sulla morte di Federico Aldrovandi, Stefano Cucchi, Giuseppe Uva.

La tutela dei diritti, nel suo percorso personale e politico, rappresenta un punto di arrivo.

Ci sono arrivato nella prima metà degli anni Ottanta, quando alcune inchieste giudiziarie e alcune leggi hanno messo in discussione i diritti fondamentali della persona nel processo penale, rendendo così più deboli le garanzie individuali. Fu allora che mi resi conto quanto fosse importante la battaglia per la tutela incondizionata delle garanzie individuali della persona. Con Massimo Cacciari e Rossana Rossanda fondammo una rivista che si chiamava “Antigone”.

La sovversione sociale degli anni Settanta, però, non confliggeva con la tutela dei diritti individuali?

No, per me non confliggeva: per molti di noi non confliggeva. Negli anni Settanta c’era, ma c’è ancora oggi, un luogo comune della sinistra che vede contrapposti i diritti individuali a quelli collettivi. Questa mi sembra una delle ragioni della crisi della sinistra in questi ultimi quarant’anni.

Lei ha sempre parlato di coinvolgimento, mai di identificazione con i più deboli, con chi non ha diritti. È una sua battaglia?

È una mia battaglia culturale. Io penso che l’identificazione con le vittime sia una cattiva retorica perché, semplicemente, l’identificazione non è possibile. Se dicessi che mi identifico con le vittime di Kiev, mentirei. Io, dal mio studio, non vivo la più piccola delle condizioni di soffocamento della libertà e del pericolo per la vita che vivono gli abitanti di Kiev. Io non mi posso identificare con i richiedenti asilo, con Ilaria Cucchi o Patrizia Moretti, perché quelle condizioni e quelle situazioni di dolore non sono trasferibili, non possono essere acquisite da me. La mia condizione sociale, materiale ed emotiva è diversa.

Diversa, dice.

Ho vissuto per oltre dieci anni accanto alla tragedia della morte di Stefano Cucchi, ma io ho vissuto vicino, non sono stato nella tragedia come ci sono stati Rita e Giovanni, i genitori di Stefano. Questa cattiva retorica rischia di essere un alibi: mi identifico e questo mi è sufficiente. Io dico il contrario: non mi identifico, ma sto dalla loro parte. Sto dalla parte degli abitanti di Kiev, facendo tutto quello che mi è possibile per tutelare i loro diritti. E non è necessario identificarmi con loro, perché credo fermamente nella giustezza delle loro rivendicazioni e nella forza del loro diritto quando quel diritto non viene riconosciuto o applicato.

I diritti non richiedono appartenenze, relazioni o implicazioni sentimentali con le cause?

No. Non si richiede quell’identificazione, ma sono l’ultimo al mondo a sottovalutare o disprezzare la dimensione emotiva della partecipazione a quelle mobilitazioni. Aderire emotivamente, provare solidarietà, riconoscersi in, non è indispensabile, ma spesso è la motivazione che induce brave persone ad agire. Quando agiscono, però, non lo possono fare in nome della propria emotività, ma lo devono fare in nome di quei diritti che non vengono riconosciuti. L’emotività, la solidarietà, il cuore grande così appartengono alla sfera delle motivazioni. Alla sfera delle azioni devono appartenere i diritti.

Nel nostro sistema politico i diritti hanno un posto marginale, quasi periferico. Il suo, d’altronde, viene considerato un impegno non politico.

Io penso che il dramma politico consista nel fatto che non si chiamino politica tutte quelle situazioni che io ritengo rappresentare il cuore e la sostanza della politica stessa. La vicenda del rapimento, della tortura e dell’omicidio di Giulio Regeni può essere letta come una questione umanitaria, e non bisogna disprezzare questa lettura, ma io credo sia povera e sbagliata. Nella vicenda Regeni c’è, all’opposto, una questione politica enorme che ha a che vedere con il ruolo che noi assegniamo alle relazioni internazionali e, nei rapporti bilaterali, ai diritti umani. Nelle conversazioni con l’Egitto, quale posto occupano i diritti umani? Il primo, il secondo o l’ultimo? Non bisogna dimenticare che nel momento in cui un regime dispotico come quello di al-Sisi si rifiuta di collaborare con l’Italia sulla morte di Regeni, in quel preciso momento viene messa in discussione la sovranità nazionale dell’Italia. Altro che fatti umanitari: si tratta di fatti politici.

Lei è un sociologo, ma considera i diritti come qualcosa di fisico, non di astratto. I diritti appartengono ai corpi?

Sì. Il corpo, già nel personalismo cattolico, in tutta la sociologia moderna e nella biopolitica, è la sede dei diritti. È il corpo che accoglie la personalità umana e contiene l’identità individuale. È dunque lì, nel corpo, fonte e sede della personalità e della dignità umana, che troviamo le radici dei diritti della persona. Potremmo leggere tutti i grandi conflitti politici attraverso il ruolo del corpo. Dalla tortura all’habeas corpus, dal matrimonio omosessuale alla fecondazione assistita, dalla maternità surrogata al fine vita, passando per l’accanimento terapeutico e l’eutanasia. Il corpo, in tutti questi scontri politici, è al centro delle tensioni e costituisce la posta in gioco.

Fra le vostre battaglie più importanti c’è sicuramente quella contro i fenomeni di malapolizia. Cosa hanno evidenziato i tanti casi emersi negli ultimi anni?

Tre cose: una cattiva formazione culturale degli apparati dello Stato, una pessima formazione tecnica, uno spirito di corpo che si trasforma costantemente in connivenza e omertà. Spesso non si guarda al cittadino, compreso il cittadino che deve essere fermato, come un titolare di diritti da difendere, ma come un nemico da schiacciare. La formazione culturale non è adeguatamente incentrata su una conoscenza piena della Costituzione, dei suoi obblighi e diritti che vengono solennemente indicati.

Il corpo del prigioniero, in questi casi, non dovrebbe essere il bene più prezioso per lo Stato?

L’habeas corpus e la fondazione degli Stati di diritto si basano sul fatto che è lo stesso Stato a tutelare l’incolumità dei cittadini nei confronti dei nemici interni o esterni. Seguendo questa logica costituzionale moderna, il corpo del prigioniero è il bene più prezioso per lo Stato. La sua custodia è un dovere primario, a prescindere dall’identità del titolare di quel corpo. Quel corpo va considerato il bene più prezioso indipendentemente dal fatto che sia il corpo di un criminale, di uno straniero o di un terrorista. La tutela e la custodia sono i requisiti essenziali che consentono a uno Stato di avere legittimità giuridica e morale.

Avete raccontato i casi di malapolizia partendo dalle biografie: nomi, cognomi, identità. Perché questi processi politici hanno bisogno di una narrazione?

Perché ritengo, da una trentina di anni, che qualunque azione culturale e politica, qualunque mobilitazione pubblica, qualunque attivazione civile, acquisti una sua forza e una sua salienza se è capace di partire dai nomi e dai cognomi. Tutta la mia attività è intessuta di centinaia di nomi e cognomi. Nomi e cognomi che emergevano da vicende personali e private e che, nel tempo, hanno acquisito una valenza pubblica, una forza politica, una dimensione collettiva.

Queste vicende sono tutte accomunate dalla sofferenza umana. Ci si abitua mai al dolore?

C’è un’interpretazione benevola, che io accolgo con amicizia, che dice che siccome da quindici anni ho cominciato a perdere la vista, questo ha acuito una mia sensibilità nei confronti della sofferenza. È vero in parte: questa mia empatia rispetto al dolore degli altri, che ora si unisce a una mia condizione personale di sofferenza, risale a molti anni prima. Per me, personalmente, è stato decisivo il lavoro dei parenti delle vittime della Strage di Ustica. In quel lavoro c’era il dolore privato dei parenti che si è fatto azione pubblica in una vicenda che aveva una valenza collettiva e metteva in discussione la questione della sovranità nazionale e il rapporto fra gli individui e lo Stato. Per me è stato un percorso sociologico e politico che, poi, è diventato anche personale.

Lei è stato accanto anche al percorso di giustizia riparativa fra i famigliari delle vittime e i responsabili della lotta armata. Secondo lei il dolore può davvero pacificarsi?

È una domanda terribile, perché la risposta è complessa, soggettiva. La giustizia riparativa ha un connotato prezioso perché contribuisce a dare un senso alla sofferenza: dare un senso. Quando la vittima o il familiare della vittima incontrano l’autore del reato, la prima cosa che domandano è: perché hai scelto mio padre, mio fratello, mio marito per commettere il tuo reato, per colpire il tuo nemico? Le risposte che ottiene questa domanda contribuiscono a dare un significato all’insensato. L’insensato è la sofferenza, il dolore che sembra non avere una ragione. È il dolore che non si capacita, non si rende consapevole di sé stesso, appare privo di una spiegazione. Allora la giustizia riparativa, mettendo in dialogo vittima e carnefice, aiuta a dare un senso. Aiuta a sostituire all’umanissimo desiderio di vendetta un conforto che può arrivare dall’espiazione. La giustizia riparativa consente provvisoriamente, parzialmente, e assai raramente, di suturare la ferita, di ricomporre la lacerazione.

In questi giorni di guerra il suo sguardo, ancora una volta, si è concentrato sulle vittime. Perché nel dibattito pubblico sulla guerra in Ucraina sono scomparse le vittime?

Me lo sto chiedendo da tre settimane e mi sono dato risposte molto parziali e, in parte, sbagliate. Questo rifiuto a stare incondizionatamente dalla parte delle vittime e della loro resistenza popolare io francamente fatico a comprenderlo. La principale motivazione non è un’attrazione nei confronti di Putin, che pure c’è, ma un’ostilità verso il campo avverso. È talmente profonda, radicata e diffusa l’ostilità nei confronti del binomio Stati Uniti/Nato che costituisce un filtro impermeabile a una adesione che dovrebbe essere immediata nei confronti delle vittime di una guerra di aggressione e invasione da parte di un esercito imperiale. Su questo interviene anche un altro intervento, di tipo intellettualistico, che mi perplime molto: ci si confronta sulle cause e le concause della situazione attuale, ma questa passione per la genealogia per quanto è accaduto e questo furioso appassionarsi per le ricostruzioni secolari di queste vicende, mi sembra costituire un alibi per non fare la scelta che l’emergenza, l’urgenza e il presente impone: stare dalla parte delle vittime. Dopo aver sostenuto la resistenza popolare a quel punto, ma solo a quel punto, si può lavorare sulle ragioni che hanno prodotto questo conflitto.

La resistenza ucraina sta suscitando molte perplessità.

Nella storia del Novecento, quella da cui veniamo, quando si manifesta una situazione in cui c’è un aggressore e un aggredito, il sentimento democratico e progressista – ancora prima di quello di sinistra – vuole che si corra in soccorso all’aggredito. I partigiani e i resistenti, in tutte le situazioni, sono stati coloro che impugnavano le armi contro l’invasore. Sembra ingenuo, sentimentale, ma abbiamo cantato tutti “Bella Ciao”. In quel canto si dice: «E ho trovato l’invasor». In questa situazione classica, la resistenza oppone alle armi dell’invasore le armi dell’aggredito. Questo avviene solo perché l’aggredito deve difendersi per sopravvivere. Ma nel momento in cui sopravvive, nel momento in cui si è conquistato uno spazio nel tavolo delle trattative, le armi devono cessare di sparare. E devono tacere. Dunque, non c’è nessuna celebrazione delle armi come strumento politico, ma il ricorso agli strumenti militari come extrema ratio, come diritto collettivo alla tutela individuale.

crediti foto: Laura Marchiori

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