1946, Giuseppe d’Addetta racconta sul Corriere la storia di San Pietro in Cuppis nel suo “vagabondaggio garganico”

by Teresa Rauzino

Giuseppe d’Addetta è stato un intellettuale garganico molto attento alla valorizzazione del promontorio, e tra i più abili a raccontarne le millenarie radici. Nato a Carpino nel 1899, si spense a San Menaio nel 1980. D’Addetta fu molto attivo come scrittore e come giornalista. Fondatore dell’Associazione “Rinascita Garganica”, ebbe il merito di rilanciare la pubblicazione del mensile Il Gargano, che nei primi anni del Novecento era nato come Gazzettino del Gargano diretto da Filippo Ungaro e stampato dalla Tipografia Flaman a Montesantangelo.

Autore di monografie su Carpino e San Menaio e dintorni, ricordiamo Giuseppe d’Addetta per uno splendido reportage   su “La Montagna del Sole”, di cui intuì il potenziale turistico, battendosi tenacemente per superare i localismi e i campanilismi, e privilegiando la narrazione del Gargano come unicum da promuovere in tutto il mondo per le sue bellezze paesaggistiche e peculiarità culturali.

Ne è una splendida testimonianza   il “vagabondaggio garganico” a San Pietro in Cuppis (in agro di Ischitella), pubblicato sul quindicinale “Il Corriere di Foggia” del 1 luglio 1946, nell’ immediato secondo dopoguerra, e da noi reperito su internet culturale. Un articolo che suscitò un bel dibattito culturale con l’ intervento dello storico Ciro Angelillis, che viveva allora ad Arezzo e la replica di Giuseppe d’Addetta. 

San Pietro in Cuppis, antica cella (1058) della badia di Santa Maria di Kalena, a distanza di 74 anni dalla segnalazione di d’Addetta del suo stato precario, costituisce al pari della casa madre un’emergenza architettonica abbandonata dalle Istituzioni e dalla Soprintendenza preposta alla sua tutela. Una triste sorte che accomuna tutte le pertinenze di Kalena (ricordiamo San Nicola Imbuti sul lago di Varano e Monte Sacro in agro di Mattinata). 

Per i nostri lettori riproponiamo il dibattito del 1946 su San Pietro in Cuppis.

Ci aiuterà a conoscere la storia di questo prezioso monumento di Ischitella, che presenta una particolarità rara oggi ancora visibile: l’iconòstasi, che nell’architettura ecclesiastica è una struttura divisoria interposta fra la zona presbiteriale e riservata ai fedeli, di regola completata da immagini sacre (icone), a San Pietro in Cuppis completamente dilavate dagli agenti atmosferici.

Purtroppo tempo fa è stato asportato da ignoti un prezioso stemma duecentesco del feudatario di Lesina, Matteo Gentile. Ci resta solo una foto pubblicata nel 1988 nel volume “Gargano, arte storia natura”, edizioni del Golfo, Manfredonia.

 Una storia, quella raccontata da D’Addetta e Angelillis, probabilmente sconosciuta anche  agli stessi ischitellani.   

La riproponiamo, consci che per deliberare bisogna conoscere. 

Una conoscenza che finora è mancata a chi doveva tutelare questo monumento, come tutti i monumenti “sgarrupati” del Gargano Nord.

Vagabondaggi garganici 

San Pietro in Cuppis

Su una balza della collina dalla quale Ischitella solitaria mira la sua conca di agrumi ed in lontananza il lago pescoso e l’azzurrità del mare, dimenticati da decenni, si nascondono nella mestizia degli oliveti, i resti dell’antica Abbadia di San Pietro in Cuppis.

Sembrano da lontano le mura grigie di una casetta rustica tuttora efficiente, fornita anche del suo comignolo che si leva su uno dei lati. Il comignolo però non fuma mai e l’inganno della sagoma permane in chi non si avvicina. Ma il vagabondo, assetato di novità, percorre viuzze solitarie e rupestri, nella smania di conoscere ogni palmo, ogni roccia della sua terra, sia pure per assistere all’agonia di un passato che muore, per raccogliere l’ultima voce delle antiche mura che si sgretolano e si appiattiscono al suolo.

E giunto sulla balza, riposa nella piccola spianata l’affanno dell’erta, all’ombra breve che gli scheletri murari ancora diffondono, e si attarda nella sosta per sentire meglio, dopo l’attesa, la poesia del romitaggio diroccato che canta nella lontananza dei secoli ed i palpiti dei cuori che vissero, amarono e si disfecero.

Solitaria è la piccola spianata recinta da muri a secco, e quasi incolti sono gli oliveti d’intorno. Solo l’orto, delimitato ed intersecato dagli avanzi del fabbricato annesso alla chiesa, mostra che di tanto in tanto qualcuno si attarda e lavora nella vecchia Abbazia, che non si sa quando e ad opera di chi sorse. Ma spigolando qua e là, si rabbercia la storia e l’ansia di sapere s’acquieta. E ci è stato così possibile risalire ai secoli fino al 1310 con la cortese collaborazione del canonico teologo Don Silvestro Mastrobuoni, dotto studioso della curia sipontina, che per noi ha raccolto alcune delle notizie che riproduciamo.

In “Rationes Decimarum Italicae” di Monsignor Domenico Vendola (secolo XIII e XIV – Apulia Lucania, Calabria – Città del Vaticano 1939) è riportato, il numero 49 in Diocesi Sipontina, decima dell’anno 1310: “Monasterium San Petri in Criptanova solvit  unc.1 “. Ed al numero 117 la decima dell’anno 1325: “Abbas Joannes San Petri de Criptanova de Ysquitella unc. (once) I “.

Non si ha memoria in Ischitella, nel silenzio dei testi consultati, di un’altra Abbazia di San Pietro; né sembra probabile che ve ne siano state due intitolate allo stesso Santo nel territorio di quel comune.

Si deve pertanto ritenere che quella di San Pietro in Criptanova si identifichi con l’attuale San Pietro in Cuppis. Coppa significa infatti, in gergo dialettale, piccola collina; e dalla ubicazione della badia crediamo derivi l’attuale denominazione, popolare in origine e latinizzata nei documenti.

Nel 1567, a quanto lo stesso Mastrobuoni riporta nella sua “Cronotassi e blasonario dei vescovi ed arcivescovi sipontini”, la Chiesa aveva il suo Abate mitrato che intervenne, insieme all’abate mitrato della SS. Annunziata di Varano, nel Sinodo provinciale tenuto dell’arcivescovo Tolomeo Gallo.

La badia fu visitata dall’arcivescovo Orsini tra la fine di dicembre 1675 ed i primi di gennaio dell’anno seguente. Allora ne godeva il beneficio un consigliere del duca di Modena, don Filippo Gastaldo, U.I.D. (dottore in utroque iure) che lo aveva ricevuto da papa Clemente X, dopo la rinuncia dell’immediato beneficiato, chierico Don Giulio de Bassanis. La rendita del beneficio fruttava allora circa 109 scudi annui; oggi è passiva.

Nell’ Appendice al sinodo sipontino tenuto dall’arcivescovo Orsini nel 1678, la chiesa di San Pietro “detta volgarmente in Cuppis” è annoverata fra quelle esistenti fuori le mura di Ischitella. Di essa dice che si reggeva con le entrate del beneficio semplice di libera collazione, col titolo di abazia, che pagava il ius cattedratico di scudi 4:15 112, che aveva per sua Grancia la chiesa di San Cirillo nei pressi di Carpino, anch’essa mantenuta e riparata dallo stesso Abate Philippus Gastaldus. Tale chiesa di San Cirillo è ricordata anche nelle “Rationes Decimarum Italicae” su citate, riportando al numero 63: “Frater Franciscus procurator ecclesiae S. Cirilli de casali Capril ter. II. gr. VIII”.

Il Sarnelli in “Cronologia dei vescovi et arcivescovi sipontini” (1680) ricorda a pagina 434 l’abbazia in parola come beneficio semplice.

Poi, per circa un secolo, il buio ancora. 

Ma più tardi, di nuovo il Mastrobuoni ci informa, al n. 112 dell’opera citata, che con bolla  “Apostolus Paolus” del 4 luglio 1774 (33. della sua consacrazione episcopale), l’arcivescovo Francesco Rivera unì in perpetuo, alla mensa del capitolo cattedrale di Manfredonia, il beneficio semplice dell’Abbazia di San Pietro in Cuppis e l’annesso beneficio di San Cirillo con tutti i loro beni; che tale bolla, emessa in tempo di santa visita, ebbe esecuzione col possesso preso da un procuratore del capitolo il primo ottobre 1776 e che tali benefici erano goduti da Monsignor Nicola Saverio Santamaria, vescovo titolare di Cirene, morto in quell’anno. È certo quindi che fin da allora Abbazia era in grave decadenza e già ridotta alla modestia di una chiesa di campagna. 

 Detta concessione al capitolo di Manfredonia fu resa esecutiva con dispaccio reale del 3 luglio 1789.

Dalla Platea esistente nell’Archivio capitolare metropolitano sipontino, compilata sugli atti del notar Gaetano De Grazia di Vico, delegato della Real camera di Santa Chiara, del 1789 -90, si rilevano le notizie delle Platee preesistenti del 1677 e 1703 e del passaggio dell’amministrazione dei beni della badia di San Pietro in Cuppis al Capitolo di Manfredonia, nonché i nomi dei contribuenti e delle località della Colonia censuale.

Ma il patrimonio dell’ente non era formato soltanto da canoni e Censi. Dalla Platea del 1827 “ossia inventario dei beni tutti, rendite ragioni di qualsivoglia sorte, appartenenti alla venerabile badia di San Pietro in Cuppis “, risulta la descrizione di un appezzamento di terra detto Codarchio, della estensione di tomoli 81, in parte lavorativa, e per il resto deserto e macchioso, sulla cui cima verso Levante stava la chiesa. La tenuta confinava ad Oriente con la difesa dell’Università, a mezzogiorno con il vallone di Romondata, a Ponente con lo stesso Vallone e con l’altro di S. Januo ed a tramontana con il Vallone di Mandrelle del beneficio medesimo.

A quell’epoca -1827- i fabbricati annessi al tempio dovevano essere, almeno in parte, ancora abitabili perché la platea afferma che il romito aveva in uso un tomolo di terra dietro la chiesa, con qualche albero di olivo. Il resto era fittato per un’estensione di tomoli 63, in separati appezzamenti, a tali Antonio Papariscio, Michelantonio La Castelluccia, Luise Antonelli e Gironimo Laganella. Oggi alla chiesa non restano che un paio di tomoli di superficie dietro i ruderi, affittati da un trentennio a Leonardo Manicone. Probabilmente la stessa terra che una volta aveva in uso l’eremita.

Fino a circa 50 anni fa, nella chiesa già abbadiale, veniva celebrata la messa il 29 giugno di ogni anno e pii ischitellani curavano la manutenzione dell’antico tempio, come vecchi del luogo ci hanno assicurato per loro personale ricordo. Ora non esistono che le sue mura perimetrali alte ma senza volta e i ruderi bassi dell’annesso fabbricato. Su quelle si notano una finestra e due semplici ma bei portali a tutto sesto, della larghezza di m 1,20; dalle linee di tali vani sembra che la costruzione risalga al dodicesimo o tredicesimo secolo. Sulla facciata larga circa cinque metri, un rosone liscio sovrasta il portale ed alla sommità, presso a poco nel mezzo dello spiovente di sinistra per chi guarda, sono i resti dell’ arco campanario, che da lontano appare con il camino della casetta rustica dal quale non esce mai fumo. E il focolare dell’antica comunità badiale è davvero e per sempre spento. 

Oltre i 20 metri della lunghezza del tempio, è l’abside al cui centro, dall’interno, si apre una piccola finestra arcata che, dopo lo sguinciato spessore murario, si mostra all’esterno con la caratteristica fessura verticale, solita in simili corpi di fabbrica.

Ma la parete interna, prospiciente al piccolo spiazzale del Convento al quale si accedeva da un portone ancora visibile nella parte inferiore del mozzo muro di cinta che si prolunga oltre la facciata, presenta gli elementi più interessanti, costituiti dalla scultura sulla chiave del portale attraverso il quale dal cortile si entrava in chiesa e dalle mensole di sostegno del canale per la raccolta delle acque piovane convogliate nel pozzo tuttora esistente in fondo al cortile.

Sulla chiave vi è scolpito, con rozza fattura, qualche cosa che alle volte sembra un cavallo rampante con un vessillo che, retto dalla zampa destra, si spiega anteriormente alla testa, mentre altre volte il vessillo pare raffiguri una grossa effige frontale del leone di San Marco, nei cui confronti, sproporzionalmente piccolo, è il resto del corpo.

Le mensole poi, degradanti verso l’abside, che poco dista dal Pozzo, sono di foggia diversa l’una dall’altra, presentano frammenti scultorei mal conservati e linee dalle quali è difficile desumere cosa rappresentassero in origine. Sembrano resti di iscrizioni, profili muliebri ma potrebbero anche essere stato tutt’altro.

Ed alle basi e sulle mura del tempio e di quelle dell’annesso fabbricato, si notano scavi e fori praticati da delusi aspiranti a fantastici tesori.

E pietre e calcina dappertutto, dentro ed intorno all’antica chiesa, tra i fichi d’India, i peri selvatici e qualche giovane arbusto di olivo e di mandorle.

Quanta tristezza è in tutta questa rovina e quanto scoramento è nello sguardo del mio compagno che, dietro le lenti rotonde, si sperde in visioni di tuniche sante ed immacolate e forse anche di crinoline in gita al romitaggio.

Taciturni ricalchiamo la viuzza, leggera nella discesa, che ci porterà alla ghiaia rumorosa del Vallone Romondata per poi inerpicarsi fino al Forchione, dove la cortesia di Maria Rosa, attempata nella classica bellezza garganica, ci comforterà con squisite burrose ricottelle, pane fresco e spugnoso, e sorrisi e moine materne. 

Giuseppe d’Addetta

Il Corriere di Foggia, 1 luglio 1946, fasc. 27, pag.3.

A a proposito del monastero di San Pietro in Cuppis

 Riceviamo e pubblichiamo 

Arezzo, luglio 

Signor Direttore,

mi conceda un po’ di spazio nel suo giornale. Ho letto con attenzione con vivo compiacimento l’articolo di Giuseppe d’Addetta sui ruderi di un’antica Abbadia che ancora si rintracciano nel territorio di Ischitella, oggi nota sotto il nome di “San Pietro in Cuppis”. Ch’ io mi sappia, è la prima volta che siano stati descritti tali avanzi testimoni di una comunità monastica che ebbe vita e sviluppo nella circoscrizione di quel piccolo Comune. Ora il nome odierno di San Pietro in Cuppis non può che corrispondere a quello antico di San Pietro in cripta nuova come già lo stesso scrittore ha potuto desumere sia per la logica naturale sia per documenti e informazioni precise che ha opportunamente citato.

Però l’origine di tale monastero non costituisce più oggi un arcano.

È dimostrato in maniera ineccepibile che esso fu una delle tante Abazie dipendenti dalla celeberrima casa centrale di Pulsano nel tenimento di Monte Sant’angelo.

In un mio saggio intorno a Pulsano che doveva essere pubblicato in questi ultimi tempi, ma che per gli immensi danni di guerra da me subiti in Toscana, è stato rimandato, come per tanti altri miei manoscritti di storia garganica, alle calende greche, ho messo in rilievo la badia di San Pietro di cripta nuova di Ischitella quale appartenente appunto alla congregazione pulsanese fondata da San Giovanni da Matera. Ciò è il risultato da ricerche fatte in questi ultimi decenni sui Registi vaticani a cura specialmente del benemerito Monsignor Vendola vescovo di Lucera e raccolta in una preziosa monografia del padre Mattei Cerasoli composta per l’ottavo centenario della morte di San Giovanni e stampata nel 1938. Adunque “San Pietro di cripta nuova” o “critta nuova” iniziò con certezza il suo curriculum vitae nella seconda metà del secolo XII ad opera di frati pulsanesi, e seguì tutte le vicende di quella celebre congregazione benedettina che resse per circa tre secoli dopo di essersi propagata con rapidità meravigliosa in quasi tutte le regioni d’Italia fino alla valle del Po.

Una notizia specifica relativa al detto monastero di San Pietro è quella della nomina del Monaco di Pulsano Giovanni Eustachio a suo Abate, avvenuta con bolla di Clemente VI (quindi il 1342 e il 1352), dopo che il suo predecessore Lorenzo aveva rinunziato a pari dignità nelle mani dell’Abate generale di Pulsano.

Ho voluto offrire i ragguagli unicamente per chiarire il dubbio espresso dallo studioso garganico quando ha detto della vecchia badia “che non si sa quando e ad opera di chi sorse”. Epperò non aggiungo altro se non che, scomparsi, verso la fine del trecento, i Pulsanesi, la Casa madre e le abbazie dipendenti furono occupate, via via, da altri ordini, ma che in nessuna di esse tornò più all’antico splendore.

La ringrazio signor Direttore, e la ossequio. 

Ciro Angelillis

(Il Corriere di Foggia, 15 luglio 1946, fascicolo 29) pag 3.

Ancora su San Pietro in Cuppis

Signor Direttore,

ho letto con vero piacere l’intervento di Ciro Angelillis a proposito dell’antica abbadia Ischitellana. E sono esatte le notizie che egli riporta da padre Leone Mattei-Cerasoli relative al vecchio monastero di San Pietro in Cuppis. Quando scrissi quel mio vogabondaggio non conoscevo ancora l’opuscolo in parola dal titolo “La congregazione benedettina degli eremiti pulsanesi”  (badia di Cava 1900 38) ed il pregevole lavoro del detto padre Leone, lo rinvenni per caso rovistando nella biblioteca dell’amico Michelangelo De Grazia. E voi mi potete far fede di avervi scritto cercando di arrestare la pubblicazione dell’articolo per aggiungere ulteriori dati.

Tali dati erano non solo quelli riportati dal Mattei, che -contrariamente a quanto l’Angelillis afferma- nulla precisa sulle origini del Convento – ma accenna solo alla sua appartenenza prima del 1177 all’ordine dei pulsanesi, ma anche quelli forniti da Consalvo di Taranto ne “La Capitanata al tempo dei Normanni e degli Svevi” (tipografia editrice Conti-Matera-1925). Questo nostro storico rapporta che, alla dipendenza del monastero di Tremiti, nel XI secolo, era Calena che fra le altre celle possedeva anche quella di San Pietro di Ischitella con vigne e poderi. Inoltre un documento del 1225, con cui Federico II confermava privilegi ed immunità già da tempo goduti, attesta che apparteneva a Pulsano “Il monastero di San Pietro in Ischitella donato da Paolo signore d’ Ischia con tutte le terre, le vigne, le selve e i mulini “.

Tale notizia, la forma più vaga, è riferita anche dal Mattei- Cerasoli, il quale precisa inoltre che papa Alessandro III, con bolla rilasciata a Vieste il 9 febbraio 1177 ad Antonio priore di Pulsano, succeduto al beato Gioele, morto da pochi giorni (21 gennaio), seguendo l’esempio del predecessore Innocenzo II ed Eugenio III, prendeva sotto la protezione apostolica la Badia e tutti i monasteri e chiese Pulsanesi, di cui riporta l’elenco. In detto elenco è compreso San Pietro della critta nuova di Ischitella.  Così mi sembra che sia messo in evidenza tutto quello finora conosciuto sull’antica badia in oggetto. Questo però non significa che si conosce ad oggi quando è ad opera di chi sorse. Non si tratta di arcano perché nelle ricerche storiche nulla vi è di arcano. È solo una zona buia che potrebbe inaspettatamente schiarirsi. 

Ma ora siamo in due a lavorare perché io mi auguro che l’illustre storico garganico, che ha dimostrato di seguire benevolmente i miei poveri iscritti, voglia dare ancora il suo valido contributo alla ricostruzione delle cronache della diruta Abbazia che è stata fra le più importanti dell’alto Gargano. 

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