A San Valentino non c’è più paura di gelo per gli agrumi

by redazione
san valentino, vico

Il Gargano, a Vico. Terra vergine proprio in senso dannunziano, la nostra piccola patria, e infatti i rapporti maggiori sulla costa italiana li avevamo con l’Abruzzo: i velieri andavano a Termoli, a Ortona, a Pescara, a Castellammare, dall’Abruzzo veniva qualche pescatore, qualche boscaiolo, qualche pecoraio, la parlata abruzzese era la sola, forse, che talvolta si mescolasse alla nostra.

Salutiamo con sentimento filiale la Maiella, gloriosa vetta che estende il suo dominio anche al nostro orizzonte, e, pe’ la Majedda, quando non si conosceva bestemmia, non c’era intercalare più energico e frequente di questo. Ma, pe’ la Majedda, se non ci ha pensato Gabriele che pure aveva possibilità di farlo, chi canterà mai la grazie genuina dei cavallucci di pasta di formaggio bardati della carta argentata dei cioccolatini che il vaccaro portava a noi bambini con certe pupattole della carta stessa pasta, simili agli idoli stecchiti dei boscimani? Erano le creazioni artistiche del nostro artigianato, come adesso si dice, motivi di presepe che non so come siano stati sostituiti per la fantasia dei piccoli. Ma c’era l’arte del cesto di paglia, della sporta di giunco, arte fiorita nei riposi campagnoli e che poteva vantare il primato: scomparsa o rarefatta anche quella? Allora nelle vie del mio paese si sentiva un gran sbattere di telai; spento pure quel pulpito di vita?

Forse la gente “scende” ancora nei bagni ai giardini di San Menaio, delle Murge Nere, del Mulino di Mare; allora la “calata” avveniva a stagione inoltrata dopo il raccolto, dopo la festa di mezz’agosto; il paese quasi si spopolava, cominciava sulla spiaggia l’avventura balneare, la chitarrata. Qualche volta andavamo a pesca con la sciàbica, non più di una o due volte l’anno perché la cosa era molto complicata e solenne. La lunga rete poteva proprio simbolizzare il Gargano, per tre lati procedeva nei flutti, sostenuta da una geometrica formazione di tiratori denudati fino al ginocchio, mentre il quarto lato del rettangolo si spostava sull’orlo della sabbia, e di quella cordata potevano far parte, o gioia anche i ragazzi.

Per legge secolare tutto quello che pescava dove essere diviso in modo ineguale, così che, fatte le parti, due dovevano toccare al proprietario delle rete, una porzione maggiorata al capo-pesca e via distinguendo. Si parlava sempre di pescate favolose avvenute in altre circostanze, si dava la colpa del magro risultato alla luna, al mare troppo mosso o troppo in bonaccia, finanche a un fiammifero acceso da un fumatore che avrebbe dato l’allarme al mondo subacqueo, si spostava tutta la compagnia di mezzo chilometro, di un chilometro, cercando acque più ricche ma io posso dire di non aver mai visto tirar fuori dalla rete più che un pugno di pescetti argentei, serpeggianti, tanto incommestibili che venivano ributtati in mare, e alghe, sterpi, cozzole vuote e qualche indumento di bagnante. Ma il divertimento era stato immenso. L’annata trascorreva fiaccamente, con avvenimenti sempre uguali, sempre puntualmente previsti. Un po’ prima di Natale cominciavano ad affacciarsi nelle nostre case i compratori di aranci accompagnati dai mediatori locali.

Le visite si succedevano piuttosto frequenti e, in generale, con risultato negativo. I compratori erano accolti in cucina, al gran fuoco, e i discorsi erano sempre quelli. Aspettavo che mio padre chiedesse qual’era la piazza, cioè che prezzo si faceva per migliaia di frutti scelti, qual’era la valutazione complessiva dei frutti pendenti dei nostri agrumeti, quando press’a poco si intendeva cogliere e portar via gli aranci negoziati; mio padre non mancava mai di rivolgere queste domande, trovava sempre inaccettabili le risposte, i compratori già sapevano come sarebbe andata a finire, si alzavano, infilavano la porta, altri prendevano il loro posto solo per riscaldarsi. Fino a San Valentino, in attesa di un favoloso rialzo, non si parlava di vendere; San Valentino presbitero e martire è il patrono del paese, la sua festa cade in febbraio, ed allora si dice che non c’è più paura di gelo per gli agrumi. Dopo questa data fatidica le cose procedevano spicce: tornavano i compratori prima, frattanto gli aranci erano in buona parte caduti e andati a male, si concludevano affari strozzati, qualcosa come venti, venticinque lire a migliaio e ricordo la formula fissa dei contratti: si svendeva in blocco “una conta tutto, togliendo solo la fradicia, la moscia e la mangiata dal topo”.

Per la còlta era ormai già primavera, si andava tutti in campagna. Venivano nientemeno da Messina, da Catania, squadre di belle ragazze specializzate nell’arte di incartare i frutti in carta velina e allinearli nelle cassette decorandoli degli interstizi di fiori di carta, stelle filanti, figurine litografiche. Le belle ragazze siciliane lavoravano all’aperto, sotto gli alberi, con una rapidità sorprendente, ma non erano di nostra competenza. Così fasciati, agghindati, dovevano iniziare il giro del mondo (andavano anche in America: i nostri emigrati non avevano ancora piantati agrumeti in California) gli aranci del Gargano, vera aristocrazia della loro stirpe eletta. Ora, in tempi di suffragio universale e di partiti di masse, viaggiano nudi, ammucchiati, stipati nei volgari cestoni da mercato. Tout passe anche per loro.

Puglia, Orizzonti Salentini Editrice, n. 2, Roma, 1949

Francesco Maratea

You may also like

Non è consentito copiare i contenuti di questa pagina.