Amarcord, Domenico Sangillo

by Teresa Rauzino

Spazi densi alla moviola dell’anima per l’artista rodiano “dal singolare estro”, che fece rivivere nelle sue tele le innumerevoli e selvagge bellezze del Gargano e della campagna romana.

Il Gargano, con i colori della sua naturale tavolozza mediterranea, da sempre è stato un magnetico polo di attrazione per i “maestri del colore” italiani e stranieri. Domenico Sangillo (Rodi Garganico 29 gennaio 1922- 8 gennaio 2016) , fu uno di quelli che decise di andarsene. Ma dalla Capitale, divenuto uno degli artisti più significativi del “tonalismo” romano che faceva capo a Mafai, lanciò l’immagine dello Sperone in tutta Italia.

E’ sempre il Gargano ad attrarlo come un ricordo atavico, una necessità del sangue: dopo molti anni vi ritorna, e continua a dipingere finchè ne ha la forza, con fulmineo tocco tonale, suggestivi olii su tela, quasi che l’improvvisa “illuminazione” gli possa sfuggire, come acqua tra le dita aperte. Scaglie di colore, fuso e sovrapposto a creare un tipico fermento, vibrazione, lievitazione.

E’ soltanto la luce a far questo oppure è l’irrequieta sensibilità di Sangillo che trasmette alle cose il fremito che porta dentro? L’atmosfera soffusa è creata dalla magia del mezzo tono. Eppure il colore trionfa in ogni tela con alternanze di toni ora tenui, ora violenti, sempre vitali. “I ritmi melodici che formano la vasta sinfonia dei quadri di Sangillo – osserva Milo Corso Malverna – sono come una musica suonata in sordina, un magico coro a bocca chiusa”.

Rocce, lago e cielo non hanno bisogno di essere amati, lo sono già da tempo immemorabile… La sua Terra gli si presenta nella sua essenza ancestrale: “Gargano eterno: Carsico cetaceo, / mistero / dei remoti universi”. Un ricordo antico lo lega alla sua Terra rocciosa lambita dal grecale: “In cima / al Talero / una casetta vetusta, / dove si accapigliano / i venti di mare, / dove inerti / marciscono / le foglie del castagno, / dove, sbiaditi / dimorano / i miei giuochi / di un tempo”. Il Gargano assurge a Purgatorio dei vivi: “Reclini / gli ulivi del Mileto: / amorfi fantasmi / dai venti condannati!” .

Ama le atmosfere brumose. Il Varano diventerà il suo rifugio. Qui, gli sarà possibile “addormentarsi e svegliarsi in un capanno, avvertendo il sommesso respiro del lago”: “Gocce di luna / smerlettano la giuncaia. / Un leggero zeffiro / soffia sul lago, / mentre eco dei pescatori / si perde nel gorgo del mistero”. Lunghe notti passate, nell’attesa del giorno, a osservare il Firmamento: “Cade una stella; / nel tempo della sua scia / si dissolve la mia memoria”. Una vita segnata da quotidiani incroci tra la vita e la morte: “Due usci contigui: / un fiocco rosa / un drappo nero. // Incontro / di inesausti / viandanti”. Una sofferenza rinverdita da ricordi che non lasciano varchi: “Lapilli / di ricordi / ardono / nella memoria, / or che / martoriata / cerca / requie”. Ma il vitalismo dell’artista emerge con forza nella lirica d’amore. Un sentimento che continua a ispirargli “palpiti” profondi: “Vorrei spandermi / dentro di te / come acqua / tra le rocce, / lambire / i granelli del tuo mistero; / ma tu / sei / chiarore lunare, / ove scivola / il mio tempo”. La forza di Sangillo è proprio qui. E continua, ogni giorno, a emozionare i suoi lettori. 2_d.sangillovigneti_amarino CHI E’ DOMENICO SANGILLO Fin dalle prime “personali”, Sangillo viene definito dalla critica un artista “dal singolare estro”, che fa rivivere nelle sue tele le innumerevoli e selvagge bellezze del Gargano e della campagna romana, in un tenue distacco dalla realtà contingente. La suggestione estetica, prodotta dallo spettacolo della natura e dall’eleganza e dalla raffinatezza di un ambiente carico di memorie storiche e di opere d’arte, è chiamata a fare da impareggiabile sfondo alla sua produzione.

Proprio a Roma vive la stagione più feconda della sua parabola artistica, proponendo le sue tele, oltre che nelle Quadriennali e nelle mostre di rango, nelle rassegne “en plein air” della Montmartre italiana: Via Margutta. La “Strada degli artisti”, negli anni della “dolce vita”, diventa due volte all’anno una “parata di arcobaleni”, illuminata a giorno nelle suggestive notti di giugno. Secondo le cronache romane di “Il Tempo”, in quelle tiepide serate “è tutta un fantasmagorico quadro, formicolante umanità a coriandoli, dentro la cornice di tetti che si rincorrono da Trinità dei Monti al Pincio”. Sino a notte fonda, uomini e donne di tutte le età e tutti i gusti, anche di nazionalità estera, si incontrano e si scontrano negli apprezzamenti e nelle polemiche davanti ai quadri “che sembrano offrirsi crocifissi e indifesi al supremo giudizio della folla”.

Sangillo vi afferma il suo stile personalissimo. Ed espone nelle più prestigiose gallerie italiane, tra cui la Gussoni di Milano, presentato da Valerio Mariani, noto critico d’arte, titolare della rubrica “La Ronda delle Arti” alla Rai di Roma. La mostra vede la presenza costante di Carlo Carrà, che esprime giudizi lusinghieri all’artista, e si intrattiene con lui per interi pomeriggi a parlare dei quadri, affascinato dalla sua vena creativa. Sulla “performance” milanese scriverà una bella recensione Raffaele De Grada, allora in forza alla sede Rai della città lombarda. Nell’ultimo ventennio Sangillo ha pubblicato varie sillogi, rivelando un’ispirazione poetica intensa e originale. Le liriche di “Figure e palpiti di vita” (1982), “Sapore del tempo” (1985), “Specchio di antiche lune” (1989), sono confluite nelle sillogi “Segni di un uomo nel tempo” (1991), “Parole e silenzi” (1992), “Sogno e memoria” (1996), “Approdi” (2002), tutte edite da Schena. Il pittore Manlio Guberti, nel 1985, dopo aver ricevuto le sue prime sillogi, gli scrive: “Caro Sangillo, grazie per le sue righe e le belle, delicate liriche che mi hanno riacutizzato la nostalgia del Gargano: terra che, come Lei sa, mia moglie ed io abbiamo profondamente amato e rispettato prima che la speculazione ne facesse l’attuale grossolano, banale caravanserraglio.

Non sapevo che avesse anche il dono di scrivere in versi, in molti dei quali traspare la sensibilità della visione pittorica. Spero tuttavia che non abbia smesso di dipingere, anche se ha lasciato Roma: proprio nella sua terra dovrebbe ritrovare, se pure in zone remote e nascoste, il suo fascino e l’impulso e l’impulso a dipingere ancora di più. Noi abbiamo lasciato Grottarossa da 18 anni, dopo aver trovato un pascolo di 13 ettari a una trentina di chilometri da Roma (presso la via Flaminia); ci abbiamo piantato tantissimi alberi, costruito lo studio e infine la casa in piena campagna. Continuiamo inguaribilmente a far le stesse cose di prima, scrivere, imparare, dipingere, coltivar la terra senza veleni, insegnare, far musica: abbiamo sviluppato l’arte di viver nascosti, altrimenti non potremmo fare quello che facciamo in un mondo così ridicolmente mercificato. Dopo ben sette anni, l’anno scorso sono ritornato nel Gargano per una settimana d’inverno, e spero che in futuro ci tornerò qualche volta per camminare nelle zone ancora non guastate. In tal caso, dovremo fare in modo di incontrarci. Buon lavoro e i migliori saluti da Manlio”.

E’ stato lo scrittore Giuseppe Cassieri, nella prefazione a “Specchio di antiche lune”, a definire per primo la superiore “essenza” dell’arte e della poesia di Sangillo: “Figli della stessa terra, vittime delle medesime inquietudini ambientali, entrambi sedotti dal medesimo paesaggio garganico: il Varano, Santa Barbara, il Taléro. Lui però ha avuto il merito di scommettere tutto nel poco spazio che gli veniva concesso, radicarsi fino all’osso carsico sottostante, alimentare i propri doni creativi di quotidiane ansie, di infinite tenerezze.

Se il prezzo pagato in termini di sopravvivenza personale è oggettivamente alto, le Muse in compenso sono state generose con l’artista, rinnovandogli i loro favori a ogni rinascita del giorno. Non solo il poeta del disegno e del colore, che certo è preminente e gli assicura un posto di rilievo nelle correnti figurative del Mezzogiorno, ma anche il poeta in versi. Da leggere, oso suggerire, in lieve abbandono, accostando l’orecchio alle minime crespature del cuore e del lago (il referente elettivo di Sangillo), così come occorre spalancare l’occhio sulle minime vibrazioni dei verdi e degli azzurri in disperata sinergia sulla tela, quanto più tetre si rivelano le corrispondenze umane, e come refrattario, inibito, il senso del mondo. C’è un’immagine – in realtà un bell’ossimoro – che estrarrei dal Canzoniere amoroso e la porrei emblematicamente al centro dell’esperienza lirica che accompagna il nostro autore: ‘Il tuo gelo / mi ustiona’. Ecco: ho l’impressione che turbamenti e aspre veglie, malinconie e rare esultanze, passino di lì”.


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