Cecchino D’Errico, la Lollo e lo straordinario luglio de “La Loi” sul Gargano. “Che euforia!”

by Antonella Soccio
Cecchino D'Errico

Seduto nella hall della sua struttura turistica, l’Hotel Riviera di Rodi Garganico, Francesco D’Errico, classe 1927, noto a tutti come Cecchino, occhi azzurri profondissimi e la stessa classe scanzonata dei suoi 30 anni, ha un grande desiderio: rincontrare la star Gina Lollobrigida, che accompagnò e frequentò, da location manager ante litteram, nel mese più lungo e straordinario del Gargano.

Luglio 1958.

Si girava il mitico film La Loi, La Legge di Jules Dassin con un cast stellare composto dalla Lollo, Pierre Brasseur, Marcello Mastroianni, Yves Montand, Melina Mercouri e Raf Mattioli. Un film che ancora oggi ispira artisti e registi garganici e pugliesi, stra-citato da albergatori, operatori culturali e cineasti.

Noi di bonculture abbiamo avuto il privilegio di parlare con Cecchino, insegnante di Francese ed Inglese all’istituto alberghiero, oltre che imprenditore turistico qualche decennio fa. Appassionato di lingue straniere- parla fluentemente il francese, l’inglese, il tedesco, il ceco e il russo e ha in animo di studiare la grammatica araba- il suo racconto è inframmezzato da idiomi d’oltralpe e suggestioni di un tempo, in cui il Gargano era una terra selvaggia ed esotica, approdo per scrittori ed intellettuali da tutta Europa.

Suo padre e suo zio, i Fratelli D’Errico, erano tra i pionieri del commercio internazionale di agrumi del Gargano ai primi del Novecento.  

Una storia quella di Cecchino sterminata e ricchissima di cultura e tradizioni.

Ebbene, tutto nacque con l’arrivo sulla Montagna Sacra dello scrittore francese Roger Vailland.

“Venne qui a Rodi ad abitare in uno dei nostri villini, abitò la nostra seconda villetta, nel giardino- ricorda Cecchino- Venne qui par hasard, per caso, aveva superato i 50 anni ed era quasi sempre sbronzo, ivre. Io parlavo francese, avevo frequentato l’Orientale, anche se non mi sono mai laureato- il mio più grande rimpianto che mi ha tristemente addolorato per tutta la vita- conoscevo bene il francese e lo accompagnavo, gli raccontavo piccoli aneddoti. E con i racconti del Gargano scrisse La Loi, La legge, che fu anche Prix Goncourt nel 1957. Ho la sua copia autografata con la dedica, Mon amie Cecchino qui al fait la loi”.

Di lì a poco il romanzo divenne un film per la regia di Jules Dassin.

“Avevamo una casetta nel Giardino alla Pescara ad Ischitella e pensammo subito con la produzione che potesse essere perfetto come casetta della Lollobrigida, era una casetta isolata. In quella casa Lollobrigida nel film nasconde il malloppo rubato ad un turista tedesco. C’è una scena fantastica della Lollo con Marcello Mastroianni. Lei prende i soldi e li butta in faccia a Mastroianni e dice: siamo ricchi!”.

Com’era la Lollobrigida?

“Era cordialissima, ma inizialmente la produzione non pensava a lei. Cercava una ragazza del posto, fui anche incaricato di organizzare i casting, delle selezioni. Serviva una bella ragazza mora, formosa, mediterranea, tipica delle nostre parti. Ne vidi tantissime a Foggia da Leone, dove allestimmo i casting. Venivano con le mamme, come nel film di Visconti. Ma poi la produzione invece di mettere la ragazzetta, ha preferito il nome. E scelsero la Lollo, che era già una diva complicata”.

La grande star chiese ed ottenne infatti una controfigura per le scene più ardue.

“La controfigura era la moglie di Gianni Di Stolfo di San Menaio. C’erano delle scene più difficili, in acqua. Non erano pericolose, ma ci si poteva far male con i rami. Soprattutto nelle scene nella zona di Ponente”.

È vero che molte scene vennero girate al Trabucco di Montepucci?

“Macchè- risponde senza mezzi termini Cecchino- pochissime scene furono girate lì, realizzarono una stradetta per arrivarci direttamente. Furono girate per valorizzare questo giocattolo pendente sul mare che è il trabucco, ma dove si girò molto del film e delle scene esterne fu nella zona di Ponente, in quel mare, la parte più selvaggia di Rodi. Poi molto fu girato a Carpino. Lì c’è la scena con Melina Mercouri, che si suicida, l’attrice che fu poi una politica e ministro in Grecia. Lo scrittore mise un Francesco, un ragazzo del posto di cui si innamora Melina Mercouri. Quel Francesco ero io. Ero io il giovane aitante con gli occhi chiari, il guappo, il mafioncello. Fu interpretato da Matteoli, un giovane attore che morì pochi mesi dopo. C’erano anche Pierre Brasseur e Yves Montand, era un cast super per quell’epoca. Anche se poi il film non ebbe grossi incassi, non gli hanno fatto una gran tamburellata. Era un film un po’ scandaloso, per quei tempi democristiani. C’è la Lollo che fa uno sfregio sulla guancia a Montand, il balafre à la joue, balafre sur la joue: un colpo di coltello. Mi ricordo che disse quando entrammo in casa: finalmente un po’ di fresco stamattina”.

I ricordi di Cecchino si sovrappongono. “Quel film fu un’esperienza non indifferente per me, avevo poco più di 30 anni. Era San Luigi e mi mandarono a comprare un mazzo di rose a San Severo per Gina Lollobrigida, non ce n’erano sul Gargano. Andai con la famosa Seicento e quando arrivai all’Hotel del Sole e le consegnai i fiori, la Lollo mi guardò. Mi colpì il suo sguardo negli occhi, non ho mai più visto occhi simili. Vorrei rincontrarla. Il film e il romanzo raccoglievano tanti pettegolezzi, tanto che alcuni mi dissero: ma la Legge è la vita del Gargano! C’erano tante nuance nostre nel film. Nuance, sfumature, vedi in francese come tutto è più bello? Il francese è una lingua delicata, è la lingua degli imperatori”.

Cecchino si commuove intimamente nel ricordo degli anni da studente all’Orientale a Napoli. Non trattiene le lacrime. Ma è un attimo, la sua vita è stata piena di eventi, colma di incontri al Riviera, dove conserva ancora le carte veline che si mettevano nelle cassette di agrumi. Torna subito con la mente al film.

Quale scena de La Legge rappresenta di più il Gargano?

“Quella di Don Cesare, Pierre Brasseur, il signorotto con le tante cameriere ai suoi piedi. Quegli anni erano molto diversi da oggi. Allora l’élite stava tutta a San Menaio, “me ne vado in pineta” si diceva. Sulla costa venivano in pochi. Una cosa di cui vado orgoglioso è che nel film suono anche la batteria. Sono un suonatore di fisarmonica, sono diventato anche amico di Peppino Prencipe, lui era un maestro senza fine, io un dilettante da marciapiede, ero bambino e lo ammiravo e negli ultimi anni della sua vita divenni suo amico. Serviva nel film un batterista jazz, il film si apre proprio con un’orchestrina. Esce il batterista con la grancassa. Sono io. Per la produzione assoldare il batterista sarebbe stato troppo costoso, quindi presero me, che sapevo suonare. Bevevo un drink, un gin, sempre liquori bianchi e suonavo. Che euforia quel luglio 1958”.  

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