Emerson, il filosofo amato da Nietzsche col cuore da poeta

by Fabrizio Simone

Il 1862 è un anno fondamentale nella vita di Nietzsche. Tra le mani del giovane Friedrich (ha solo 17 anni) finisce un libro prezioso, destinato ad esercitare una grande influenza sulle sue idee: Condotta di vita,il capolavoro di Ralph Waldo Emerson (1803-1882), filosofo di punta del trascendentalismo americano, che considererà per tutta la vita come un fratello spirituale. Il collegiale, orfano di padre, acquista la versione tedesca da un libraio di Lipsia e si innamora perdutamente di quel testo che combina aforismi, aneddoti e frammenti di poesie. In breve tempo, però, entra in possesso anche degli Essays, sui cui margini annota brillanti intuizioni, dimostrando una totale sintonia con l’autore. Anche quando viaggia, infatti, tra le sue mani c’è sempre un libro di Emerson (uno lo perderà a Bayreuth nel 1874).

Per Nietzsche, allora, risulta impossibile separarsi dal filosofo americano, eletto a spirito guida (l’epigrafe con la citazione di Emerson, posta all’inizio della Gaia scienza, è significativa), di cui acquista tutti i titoli e le traduzioni disponibili. Anche le poche raccolte poetiche? Probabile. Del resto, le poesie nicciane hanno parecchio in comune con l’opera in versi di Emerson, pubblicata in Italia (seppur non integralmente) per la prima volta, grazie alla casa editrice La Noce d’Oro, soltanto nel 2022.

Il cervello di fuoco(475 pagine, 20 euro) raccoglie una corposa selezione tratta dalle due raccolte edite in vita da Emerson, più un cospicuo numero di poesie sparse, traduzioni e un bel saggio che il premio Nobel per la letteratura Maurice Maeterlinck ha dedicato al filosofo bostoniano nel 1902. Emerson è un autore completo: scrive epigrammi mordaci, apologhi, elegie, poemetti, padroneggia la rima ma non disdegna il frammento e il verso libero. Sebbene la sua sia una poesia perlopiù spirituale, profondamente ancorata alla poetica romantica, i versi di Emerson non hanno nulla da invidiare a poeti blasonati come Emily Dickinson o Walt Whitman: il sentimento che traspare dalle liriche antologizzate è sempre sincero, non si avverte mai il gusto dell’artificio o una propensione alla leziosità retorica ma una continua tensione all’universale, ben visibile grazie allo stile volutamente limpido e sempre garbato (il merito è anche di Sofia Fiorini, che ha tradotto il volume con una chiarezza esemplare).

Anche quando parla d’amore, è ben viva in lui la lezione dantesca (non a caso i riferimenti a Dante – pochi ma precisi – sono facilmente riconoscibili), ma questo non deve stupire perché proprio ad Emerson si deve la prima traduzione in inglese della Vita nuova. Se in Dante riconosce un maestro fondamentale, anche la Genesi (ma in realtà un po’ tutta la Bibbia, specie il Cantico dei cantici e gli altri Libri Sapienziali) finisce per costituire un importante modello, proprio come il canzoniere del poeta persiano Hafez, su cui Emerson prova a plasmare parzialmente il suo spirito lirico. Chi è, allora, il poeta Emerson? Un visionario? Un saggio? Un illuso che spera di parlare ancora con la moglie morta di tubercolosi dopo neppure due anni di matrimonio? Un profeta inascoltato (predecessore dello Zarathustra nicciano)? Un viaggiatore instancabile? Un tessitore di sogni? Forse la risposta è contenuta in una lirica scritta nel 1842, The park, una sorta di ritratto involontario di quest’uomo che si orienta in un mondo sempre più complesso servendosi solo della propria coscienza:

Ciò che è bello e prospero

  A me sembra che non porti

Il giogo imperioso della coscienza,

   che mi strugge ovunque.

Non riesco a scuotermi di dosso il dio;

   del mio collo lui fa il suo trono;

guardo la mia faccia nel vetro –

    i miei occhi incontrano i suoi.

Incantatori! Incantatrici!

    Il vostro oro vi fa sembrare saggi;

la foschia del mattino tra le vostre terre

      cala più fiera, si estende più dolce.

Eppure raccontava la montagna viola,

     eppure diceva l’antico bosco,

che la Notte o il Giorno, l’Amore o il Crimine

    conducono tutte le anime al Bene.

Ma già nel 1833, visitando Catania, scrive un appunto non trascurabile: “È indubbiamente un errore guardare troppo dentro di sé, ma sono io la tragedia e la commedia di me stesso”. Quant’è duro il mestiere di uomo.

You may also like

Non è consentito copiare i contenuti di questa pagina.