I limoni del Gargano

by redazione

Pare assodato che il Giannone, tutto preso dai suoi impegni storici e giusnaturalistici, precocemente coinvolto in circostanze politiche che dovevano allontanarlo per sempre dalla nativa Ischitella, non abbia lasciato alcuna «impressione» autobiografica sulla piccola Rodi, pur a tiro di archibugio dalla casa dove venne alla luce.

Dimenticanza troppo grave all’occhio dei rodiani perché memorialisti posteriori a Pietro Giannone, specie Michele Rotunno e Antonio Vaccaro, non facessero del loro meglio per restringere nelle «Appendici» i meriti di chi minacciava di guadagnarsi la posterità nonostante quella e consimili lacune. E anche quando, pochi decenni or sono, u n prefetto di Foggia, imbeccato dall’alto, suggerì ai sindaci garganici di intitolare una strada all’autore del «Triregno», nella piccola Rodi prevalse l’antico dispetto sul sussurrato rispetto, e il consiglio municipale pervenne alla deliberazione di chiamare Corso Giannone una polverosa fettuccia extramurale. Forse l’ubicazione della targa in quell’angolo derelitto fu soltanto genericamente irriguardosa: la periferia e basta. M a non si può escludere che uno dei notabili, ispirato giustiziere, abbia suggerito quel «Corso» per applicare una sorta di contrappasso. Di che, in fondo, si era occupato l ’autore del «Triregno», parlando di sé, nella «Vita?» Per caso dei trastulli dell’infanzia al cospetto degli aranceti, dei gagliardi oliveti. Dei giganteschi olmi e lei, ci, delle acque zampillanti al tocco di ogni verga? Per caso dei capitoni e «capomazzi» del lago V arano con un sospiri» nostalgico, «almeno uno!» (vedi il Rotunno) per gli eccezionali arrosti alla griglia in una combinazione aromatica di luppolo e finocchiella? O delle dolci colline agrumifere da cui contemplare le Diomedee (non ancora volgarizzate in isole Tremiti) avvolte nell’oro del mito? Niente, niente in quelle pagine «traspose? Che fosse e il Vaccaro debbono convenire che l’omerico vale per definizione augurale, nel senso che un luogo così fatto sarebbe immensamente piaciuto a Om ero. Su questo non si può dar loro torto. Rodi junior si pronuncia a sprone sullo spartiacque del Medio e Basso Adriatico dopo che — una illusione ottica cui difficilmente si sfugge — ha chiesto alla campagna circostante di poter ospitare non più che un pugno di rosei caseggiati, un campanile di epoca saracena, e ormeggiarsi senza stridori tra gli scogli di ponente. Per essere situato, come si diceva, al punto di congiunzione del Basso e Medio Adriatico, accade che il paesino sfugga a ogni determinismo meteorologico e il campo cursorio dei venti e- delle piogge obbedisca a una circoscritta validità ambientale. Questo non vuol dire che la sua posi’ zione sia assolutamente privilegiata rispetto al resto del Gargano e che nella risacca si spengano per m asia le ire del greco-levante. E ’ però incontrovertibile che un certo favorevole gioco di correnti si attui, se l’inverno si congloba nell’autunno, se l’estate è lunga ma ombrosa, se la primavera si traduce in una frenesia di aranci fioriti. Giacché questa è, infine, la riprova della straordinaria mitezza: la netta prevalenza degli agrumi sugli oliveti e sulle altre colture. Inesistenti i cereali, rari e svettanti gli alberi di noci; segno di squisita attenzione della dea Pomona (il Triggia, il Rotunno e il Vaccaro in perfetta coincidenza di vedute): la varietà della frutta; dai fichi che maturano in cinque qualità e resistono sui rami da giugno a novembre, ai fichidindia della durezza di una cassata e del colore di un fiocco cardinalizio.

Prugne e susine percoche e pere spadone, amarene e uva moscata, carrube grasse col miele che scorre come tiepido mercurio nella longilinea guainella e, si capisce, la regina del corteo, l’arancia. Quest’ultima, i rodiani hanno faticato qualche secolo per imporla come la migliore del Mediterraneo, ma non avendo ottenuto autorevoli riscontri spiritò innamorato della sua terra. Si aggiunga che un contemporaneo dell’ischitellano. Già «corno Triggia, scrivendo la sua vasta «Memoria appula», usciva a dire: «In questa nostra Rodi, figlia diletta della Rodi major, innanzi che gli uomini presero stanza gli dei». Si aggiunga che il Triggia, in agonia, volle essere trasportato a una loggia del convento francescano per godersi in una estrema panoramica la dimora dei buongustai pagani, parafrasando nei gemiti il verso riferito a S. Cristoforo: «O m erica Rodi videas, postea beatus eas…». Un po’ enfatico, so si vuole, ma in perfetta armonia con la struttura notevolmente orgogliosa dei rodiani (a proposito, il Rotunno si batte per rodi in disaccordo col Vaccaro che propone rodiesi) i quali, se accettano di discendere da Rodi Egeo, disdegnano legami di lingua e di sangue con le città dell’entroterra, alla stessa stregua che disdegnano Rom a capitale e Garibaldi (l’una per non aver provveduto nei fasti consolari a una ramificazione dell’Appia, l’altro per non avervi fatto tappa nel suo zingaresco viaggio nel Sud) e non si sgomentano di affrontare l’economia di mercato avventurandosi da soli nel mondo. Tanto che oggi non c ’è volantino compilato dagli Enti Pro-Loco che non riporti il verso del Triggia, Cosa dunque troveranno i visitatori stranieri e similmente gli italiani attratti dal medesimo slogan? Per la verità, di Omero non è accettabile perfino il Rotunno.

Giuseppe Cassieri

L’articolo, pubblicato negli anni Settanta, fa parte degli archivi della preziosa collezione del professor Giuseppe Maratea

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