I cani delle Tremiti, parenti alla lontana di Argo di Ulisse

by redazione

Se volete, gratis, un setter irlandese di buona razza, di quelli lucidi color castagna, d’orecchie chiomate e di dolce muso, andate a sceglierlo e ad adottarlo all’isola di San Domino alle Tremiti.

Ce n’è un clan vagante e senza padrone. Vanno su e giù, ciascuno per proprio conto, sulle loro ritmate fioccose e sciammannate zampe. Dalla cima della pineta esposta ai venti, alle calette delle barche dove d’estate funzionano i pochi ristoranti dell’isola, e ai primi d’autunno dei ristoranti resta l’odore, il ricordo. Sono in perpetua caccia. Quando la stagione turistica è finita, e la piccola flotta di vele del Touring Club è sciamata via come nuvolette di farfalle sul mare, e gli aliscafi hanno abbassato le pinne fino a nuovo ordine, e i vaporetti hanno diradato le loro visite, i cani s’apprestano al crudo inverno della fame.

Cani-gabbiani

Buon per loro che si sono adattati al pesce crudo, facendosi per necessità parenti ai gabbiani adriatici, e che saltan dentro le barche a rovistare negli angoli dimenticati dove qualche palombo e qualche sardina possono esser scivolati via dalle reti smagliate. Se l’incontrate di notte, se li vedete spuntare sul sentiero, silenziosi, dalle mandrie dei pinastri e dell’erba mentuccia, non abbiate paura. Essi adorano l’uomo. Hanno intuito definitivamente il rapporto che passa tra l’uomo e il loro sostentamento. Ne hanno estrapolato un sentimento religioso. Senza la fatica dei pescatori d’inverno e senza l’attività turistico-alberghiera, d’estate, essi, moltiplicatisi in naturale selezione e in incontrollata progressione, sarebbero destinati a morte d’inedia, chiusi nella breve gobba di rocce e di boschi, dopo aver tentato le ultime disperate cacce alle lucertole, ai topi di campagna e alle bisce, sola fauna terrestre dei luoghi.

L’adattamento li ha resi particolarmente devoti all’uomo e ne ha sviluppato le capacità venatorie. Non li temete in ogni caso, neppure in branco, emersi dalle tenebre nel cuor della notte. Silenziosissimi, come loro uso, verranno a sfiorarvi le mani con le umide nari, a battervi il duro piumino della coda sulle gambe, a mostrarvi quei loro occhi gialli e mansueti, ansiosi di struggenti comunicazioni. Ho visto questa estate alcuni pietosi e affettuosi turisti sottrarre a quel destino di solitudine e di stenti un paio di cuccioli, due grosse umide castagne rutti sguardi e guaiti, e portarseli via avvoltolati negli asciugamani da bagno o affacciati agli orli delle borse dei panierini, li, ho visto poi la dondolante mamma, di lungo ventre molle, cercarli a muso basso, seguendo le piste del loro odore che il mare cancellava di ora in ora. E come guardava i bagnanti: l’avete visti? l’avete visti? Finché presso i bagnanti s’accucciava come a mostrare fiducia e rassegnazione.

La razza

Ma non dimenticanza; ché poi, destata alla memoria, trotterellava via dalla punta scogliosa della caletta fino al molo delle barche, cercando, annusando, puntando l’aria col nero naso vibrante. E non crediate che il tempo e le generazioni abbiano imbastardito la razza. La razza è ancora purissima, e non sarebbe difficile con una attenta ricerca, trovarne gli autentici capostipiti in Irlanda 0 in Inghilterra. Poiché i setters sono alle Tremiti da meno di un secolo. Fu verso il 1880, in un giorno di fortunale, quando l’Adriatico sembra una rivoluzione di popolo e il cielo una mandria di tori neri e bianchi alla carica, che il guardiano del faro della Capperaia (così si chiama la più piccola delle Tremiti, quella disabitata, che i pescatori chiamano la Capraia, senza aver visto mai la barbetta di una sola capra) vide due puntolini lucidi color marrone avanzarsi tra le onde verso le rocce. Scese giù alla scogliera e dapprima credeva d’aver avvistato due foche e si dette qualche pugno sulla testa per la solita paura che prende i guardiani di faro d’impazzire e di aver le visioni. Poi vide chiaramente che erano due cani, sfiniti dalla fatica, ma testardi contro l’altalena delle onde. Apparivano e scomparivano sulle creste e nelle valli dell’acqua riccia, e s’avvicinavano. Infine saltarono sugli scogli e si scrollarono, grandi, lucidi, tremanti. Due stupendi setters che, raccolti e asciugati al fuoco, rivelarono la morbidezza del loro pelo folto e ondulato. Si seppe poi che una nave inglese aveva fatto naufragio al largo del Gargano. Il caso, o un miracoloso istinto, aveva guidato l’incredibile nuotata dei due cani, unici superstiti. Il guardiano della Capperaia li portò a San Domino (ma in quale angolo di paradiso saranno rannicchiati certi santi sconosciuti?) dove vivono le poche famiglie di pescatori. Anche i pescatori sono dei trapiantati: tutti figli e nipoti di fedeli soldati e marinai di Sua Maestà Borbonica, guardiani napoletani dell’antico penitenziario costruito sull’isola maggiore, la Tremiti. Ed è per questo che sul minuscolo arcipelago pugliese si parla uno sbalestrato e disorientante dialetto partenopeo. Come non è difficile risalire le dinastie dei pescatori tremitani, così non sarebbe difficile arrampicarsi su per l’albero genealogico degli splendidi setters nati da chissà quali nobili fianchi, chissà in quale inaccessibile castello britannico e proletarizzati ma non degenerati sulle scogliere adriatiche. I pescatori isolani, che hanno imparato a spillar quattrini pure dai sassi del loro dominio, organizzano minimi safari notturni per sentir piangere le « diomèdè » in un certo anfratto marino.

Diomede e gli uccelli notturni

In quella lugubre grotta infatti certi rari uccelli, diabolico incrocio tra gabbiani e pipistrelli, fanno il piagnucolante baccano di un brefotrofio, orribile a sentirsi. La tradizione è antichissima. Nei vecchi trattati di mitologia si legge come il fedele compagno di Ulisse, Diomede, spaventato dalle trame di una moglie infedele e in vena di uxoricidio, fosse fuggito dai lidi greci e fosse approdato, secondo il buon uso dei combattenti di Troia, alle scogliere italiche, e come avesse tolta in moglie la figlia di un re locale, Dauno. Successe a Dauno, e tale fu la fama di bontà e di saggezza che, alla sua morte, i suoi compagni pel gran pianto si mutarono in uccelli notturni. Ed eccoli che ancora fanno il pianto greco ogni notte: prima chiamavano Diomede, ora chiamano i turisti. E il turismo, sollecitando la fantasia, dimenticando il naufragio della nave inglese, si potrebbe completare il mito, e raccontare come i cani delle Tremiti siano figli dell’immancabile cane di Diomede (parente certo alla lontana di Argo d ’Ulisse) che con l’antico guerriero approdò alle isole selvagge. Certo è che il rimpianto è più leggibile negli occhi dei setters delle Tremiti che non decifrabile nei frigni degli uccelli cavernicoli. Forse una spolveratina mitologica su quei cani potrebbe contribuire alla loro salvezza. Non a tutti i cacciatori è dato d’andare a caccia con un figlio del cane di Diomede.

Gino de Sanctis

* L’articolo pubblicato da Il Messaggero negli anni Settanta fa parte della collezione dei preziosi archivi del professor Giuseppe Maratea

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