Il discorso amoroso: dieci film d’amore da rivedere a San Valentino

by redazione

Vi proponiamo una classifica di dieci film d’amore dagli anni ’30 agli anni ’50. Una piccola selezione di pellicole con al centro storie di amori impossibili, ossessioni amorose, sentimenti non ricambiati e commedie romantiche degli equivoci. Un mini viaggio tra i generi del discorso amoroso.

L’amaro tè del generale Yen

Frank Capra (1933)

Il film di Frank Capra racconta la storia dell’amore tra una donna bianca e un uomo cinese, un argomento talmente tabù all’epoca da far proibire la distribuzione in molti paese, primo tra tutti l’Inghilterra. Molti critici hanno evidenziato un rapporto diretto con l’onirico l’Age d’or di Bunuel, in particolare nella sequenza del sogno in cui Barbara Stanwick pensa di essere prigioniera della lussuosa dimora del generale Yen, immagine di un desiderio irraggiungibile. Effettivamente le suggestioni di Bunuel sono fortissime nella sequenza finale quando Megan, mentre si trucca davanti alla toilette, vede se stessa baciare Yen nello specchio. Un film che affronta il tema tanto caro a una certa cinematografia degli anni Trenta, quello dell’amore oltre la morte, delegato alla battuta finale in cui Megan spera di rivedere l’amato nobile cinese – nel frattempo morto suicida – in un’altra vita.

Schiavo d’amore

John Cromwell (1934)

Il film ruota intorno ai sentimenti non ricambiati ed è un melodramma abbastanza tipico che riesce a restituire ottimamente il clima d’angoscia che contraddistingueva il romanzo. Bette Davis interpreta Mildred, la maliarda senza scrupoli della quale si innamora perdutamente lo studente di medicina Philip ,interpretato da uno straordinario Leslie Howard. Ma Mildred ama un uomo sposato e da subito sfugge a Philip e gli fa capire di preferire altri uomini. L’amore è maledizione e la donna è una specie di strega traditrice, lasciva (con gli altri) ingrata, avida e egoista che si prende gioco dell’uomo che è anche affetto da una menomazione fisica (un piede equino). Dopo Schiavo d’amore la Davis riuscì ad andare – non con qualche difficoltà – oltre questo odiatissimo personaggio interpretando donne molte eterogenee tra loro ma tutte sempre con una carica eversiva diversa rispetto alle altre attrici.

Scandalo a Philadelphia

George Cukor (1940)

È la più tipica delle commedie americane sul remarriage, genere popolare negli anni trenta e quaranta, in cui una coppia divorziava per poter intrattenere delle relazioni con altri partner, per poi risposarsi nel finale a lieto fine. Tracy (Katherine Hepbur) è una ragazza ricca e viziata che, stanca del marito alcolizzato (interpretato da Cary Grant), lo sbatte fuori casa. Dopo qualche tempo la donna decide di sposare George, un uomo semplice e ingenuo. Il matrimonio attrae nella villa un reporter senza scrupoli (James Stewart) in cerca di scoop piccanti. A questo punto l’ex marito – ancora innamorato di Tracy -architetta un piano per mandare a monte le nozze. Il film fu candidato a 6 premi Oscar tra i quali la regia (gli altri concorrenti quell’anno erano Ford, Hitchcock e Wyler). James Stewart vinse l’Oscar come attore protagonista battendo il suo amico Henry Fonda (con Furore), Laurence Olivier (con Rebecca – La prima moglie) e Il grande dittatore di Charles Chaplin.

Partita a quattro

Ernst Lubitsch (1933)

Adattamento di un testo teatrale di Noël Coward, l’ultimo film girato da Lubitsch prima dell’entrata in vigore del terribile Codice Hays. Un film audace, sia per il tema trattato, sia per come sfrutta abilmente tutte le potenzialità del mezzo cinematografico: parte come un film muto in cui la narrazione è cadenzata dagli sguardi, valorizza poi la brillantezza dei dialoghi e infine ottimizza il campionario di immagini allusive e di non detti pregni di significato drammaturgico (come la battuta conclusiva, intuibile ma negata). Una commedia sofistica un cui il personaggio maschile è triplicato mentre quello femminile resta unico: ci sono un pittore, un commediografo amati entrambi dalla ragazza (Miriam Hopkins) che non riuscendo a scegliere tra i due sposa un industriale. Il film rompe lo schema della commedia, non si va verso un rapporto stabile monogamico ma anzi l’incertezza che caratterizza la donna fin dalla prima sequenza sul treno quando la macchina da presa ci fa scoprire che conserva i ritratti di entrambi gli uomini, viene ribadita nel finale quando lei lascia il marito e se ne va in un taxi con gli altri due. Lubitsch non si erige mai a giudice, ma si limita a mostrare con la consueta sagacia questi personaggi emotivamente insicuri e a tratti infantili, ma sinceri, imperfetti e pieni di vita, disposti a volersi bene anche sfidando gli standard morali dell’epoca.

Per chi suona la campana

Sam Wood (1943)

Tratto dal romanzo di Ernest Hemingway il film di Sam Wood punta soprattutto sul rapporto tra Robert (Gary Cooper) e Maria (Ingrid Bergman) facendone un melodramma su sfondo bellico. Robert Jordan, intellettuale americano, si è unito alle Brigate Internazionali che durante la guerra civile spagnola difendono la Repubblica dall’esercito di Franco. Esperto di sabotaggi, Robert viene inviato dal generale Golz sulle montagne, per prendere contatto con un gruppo di guerriglieri. La sua missione consisterà nel far esplodere un ponte controllato dal nemico, in concomitanza con un massiccio attacco dell’esercito repubblicano. Nel frattempo l’americano conosce la giovane Maria, vittima di violenze durante una feroce rappresaglia dei franchisti. Robert e Maria vivono una intensa storia d’amore nei giorni che precedono la battaglia. La situazione già molto romantica è esasperata dal fatto che tutto si consuma in tre giorni e tre notti con la continua coscienza della provvisorietà e della mancanza di prospettiva di futuro. Non ci sono ricongiungimenti oltre la morte ma c’è qualcosa di simile quando Robert dice a Maria nella straziante scena di addio, che loro sono diventati una cosa sola e che lei porta la vita di lui dentro di sé.

Gilda

Charles Vidor (1946)

Il film rientra nel genere noir, caratterizzato da metropoli fumose, angoli bui, locali notturni e che costruisce la narrazione attorno al topos del triangolo amoroso su cui si staglia, deleteria e spietata, la figura della dark lady. Gilda (Rita Hayworth)  è una donna che si ritrova a esser la moglie del miglior amico del suo ex amante. Nel film è sempre la donna a dominare sia all’entrata in scena sotto la cascata di capelli che getta indietro scoprendo il suo bellissimo volto sia nei due show musicali. Un plot assurdo che ruota intorno a quell’amore che Johnny finge di disprezzare e per il quale Gilda finge di essere una poco di buono. Una romantica storia d’amore resa impossibile prima non si sa bene da cosa, poi dall’amicizia tra i due uomini e infine credendo morto il marito dal disprezzo che lei fa di tutto per suscitare nell’uomo che ama. C’è il lieto fine con relativa cancellazione d’ufficio di ogni sospetto ma è per l’ambiguità, per la sfrontatezza, per le movenze feline dell’attrice, che Gilda è diventato un personaggio mitico.

Lettere da una sconosciuta

Max Ophüls (1948)

È un film paradigmatico e struggente sull’impossibilità amorosa che rientra nel genere del melodramma. Stefan, un signore viennese rientra a casa prima di un duello e riceve una lettera di Lise (Joan Fontaine) la donna che lo ama segretamente da tutta la vita. Inizia un lungo flash back in tre parti. La prima, durante la gioventù quando Lisa si nasconde per spiare il nuovo inquilino e ne ascolta le esercitazioni al pianoforte. La seconda quando è diciottenne e si rovina l’esistenza per l’amore non corrisposto. E’ in questo periodo che un giorno incontra per caso Stefan e passa con lui una notte, dalla quale un po’ di tempo dopo nasce un bambino al quale dà il nome Stefan. Lise mantiene suo figlio con le sue sole forze, a costo di qualunque sacrificio. Passano dieci anni. La donna ha sposato un aristocratico di mezza età di nome Johann Stauffer, cui ha raccontato tutto e che mantiene nel lusso lei e suo figlio. Nella terza parte Lisa manda all’aria il suo matrimonio solo perché ha rivisto Stevan e dopo una serie di vicissitudini cade in disgrazia e si ammala di tifo insieme al suo bambino. E Stefan finalmente, si rende conto di quell’amore silenzioso che l’ha seguito tutta la vita.

Lettera a tre mogli

Joseph Leo Manckiewicz (1949)

La commedia di Joseph Leo Manckiewic rientra del genere sentimentale e degli equivoci. Il film mette in scena la vita di tre coppie borghesi di una piccola città: le loro case, i loro party, le vite al circolo, i picnic con i bambini. E proprio mentre sono in partenza che le tre mogli ricevono l’annuncio che uno dei loro mariti è fuggito con Addie la ragazza più bella della città. Hanno allora inizio i flash back sulla fragilità dei rapporti, sulla possibilità che ciascuno dei tre mariti possa essersene andato: Deborah lo teme perché ha un complesso di inferiorità, Rita lavora ed è una donna talmente ambiziosa che si scorda del compleanno del marito e Lora è una cenerentola riuscita a farsi sposare che soffre di un complesso di inferiorità. Un commedia divertente caratterizzata da un ritmo incalzante e da un immancabile lieto fine. Quello che è certo è che i tre matrimoni si salveranno senza sacrifici.

Ritrovarsi

Preston Sturges (1942)

Preston Sturges è un regista poco conosciuto in Italia e la cui opera fino a qualche anno fa era persino difficile da reperire sul mercato ,pur essendo l’inventore di tutta una serie di schemi che caratterizzano il cinema americano ancora oggi. Irriverente, scorretto, crea personaggi che farebbero di tutto per uscire dalla condizione di miseria e povertà in cui navigano loro malgrado. E Ritrovarsi ne è un esempio. Il film comincia dove di solito le altre commedie finiscono cioè con la scena di un matrimonio ma il tradizionale lieto fine è messo subito in discussione a causa della mancanza di denaro. E dato che lui (John Mac Crea) non riesce a realizzare i suoi progetti, lei (Claudette Colbert) pensa di divorziare per trovare un altro marito ricco che lo finanzi. Tutto il film gioca un po’ paradossalmente sull’assoluta facilità, una volta presa questa decisione, di trovare chi è disposto a elargire denaro alla donna senza nulla in cambio. Il re dei salamini si offre di pagare l’affitto e i conti del dorghiere, un club di cacciatori le offre il viaggio a Plam Beach e un miliardario le rifa il guardaroba e le compra un braccialetto. Se è chiaro che l’amore senza il danaro non può bastare la spregiudicatezza di Sturges ha un limie: il marito raggiunge la moglie e la coppia di ricongiunge.

La gatta sul tetto che scotta

Richard Brooks (1958)

Il film è tratto dall’omonima opera teatrale di Tennesse Williams. Nel film la bellissima Maggie (Liz Taylor) ha un bel togliersi e infilarsi le calze davanti al marito Brick (Paul Newman), nella prima scena implorandolo di amarla ancora. Lui si mostra schifato e sprezzante e cerca solo la bottiglia. Lo fa da quando, veniamo poi a sapere, ha perso un caro compagno di squadra, del cui suicidio colpevolizza Maggie che sarebbe diventata a un certo punto la sua amante (cosa che si scoprirà non vera). Ma tutto ciò emerge in una scena madre che, non casualmente, Brick ha con il suo vecchio padre ricco e grasso possidente del sud che rinfaccia al figlio di non sapere affrontare la realtà. Nel finale Brick riconosce i propri errori e promette di cambiare vita, riconciliandosi con la moglie e prendendo in mano la grande azienda che il padre ha creato. Nell’assumere quella responsabilità, che prima aveva respinto, Brick rende felice Margaret, che non ha mai cessato di amarlo.

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