Il Gargano era un’isola e il suo Adriatico era un lago

by redazione

Il Gargano era un’isola, i vecchi lo sanno: un’isola avvolta nel sonno d’una solitudine antica, d’una indolente réverie tutta in penombra, con alternative di lontananze marine, allucinazione di boschi e di riviere, romanticismo di dirupi, di frane, di scogli e poi ventate di polvere d’oro, miriadi di scintille di stalla, di vinaccia, di trappeto, di capre, di maialetti inquieti nell’immondizia delle straducole, cavalcate lente di muli, di somari, e per decorazione negli spazi all’orizzonte, nelle pieghe d’ogni cosa, rami, foglie, fiori, frutti d’arancio, di limone, uva malvasia, fichi reali, dappertutto un bellissimo quadro del Ruoppolo.

Isola sitibonda; chi vuole un barile d’acqua, un barile d’acqua per un soldo? L’acquaiola portava un barile solo, bene equilibrato sulla testa; aveva fatto a piedi scalzi due chilometri in salita dalla fontana, aveva guadagnato un soldo. Con un soldo si poteva comprare un litro di vino, o un chilo di pane, o un grosso spicchio di cacio.

Ma che è mai un’isola? È appena uno stato di verginità, un’ignara innocenza, un colore raro e labile. Il Gargano era proprio terra vergine, difesa dal suo stesso destino di proscrizione nella profondità del tempo remoto, preservata dal suo perenne anacronismo. Terra vergine e inaccessibile che nelle ore calde si dondolava tra i tocchi di certe campane rauche, penzolanti dalla pappagorgia delle vacche (motivo di jazz originale, non mai registrato); poche persone ne uscivano, quasi nessuno vi arrivava, eravamo sempre tra noi, noi soli.

In piazza alla festa della Madonna, sempre quelli con la banda di Viesti e il suo tante volte sperimentato programma; i botti, i razzi, i bengala, tutta la pirotecnica portava a mezz’agosto l’unico messaggio possibile al resto dell’universo, alla luna, alle stelle. Quasi nessuno arrivava da fuori, ventiquattro ore di diligenza e di mal di mare erano studiati apposta per distogliere nuove conoscenze; forse arrivavano le idee strambe, le tentazioni, ma quelle si sa che le porta lo scirocco, le portano le mosche, e del resto non attecchivano allora come la gramigna. La felicità era una giornata di pioggia dopo le rogatorie al Crocefisso, un tomolo di grano, uno staio d’olio, una cesta d’agrumi, un sacco di mandorle, di carrubbe più del raccolto precedente: tutta la felicità possibile.

vecchio gargano

Ma se è vero che il Gargano era un’isola, è anche vero che il suo Adriatico era un lago. Io lo vedevo dalla mia casa, dalla camera dove sono rimasto più a lungo perché deliravo nella lotta col vaiolo e nessuno poteva avvicinarmi, toccarmi, per quaranta giorni, soltanto la mamma; quando guarii ero cresciuto, ero quasi all’adolescenza, guardavo con occhio curioso al di là dell’orto, di là delle colline, cantavo con la mamma con la stessa tristezza, certe canzoni antiche, palomella o che so altro, al mio paese non arrivavano neppure le canzoni nuovi.

E quel lume lontano che va e viene? Il faro di Pianosa, forse di Pelagosa, forse delle Tremiti l’Adriatico era tutto lì, quello che si vedeva da casa mia : un piccolo lago. In quel lago il mio nonno materno aveva navigato per anni e anni con una barca ventruta e stracarica dalle vele dipinte a striscioni gialloblù come gli svizzeri del Papa, andava e veniva dalla nostra sponda alla sponda dalmata, portava e riportava ogni ben di Dio, era un uomo in gamba, si era creato tra l’Istria e il dedalo di Cattaro un’infinità di compari, di comari, di comparelli, di comarelle, aveva ammucchiato un bel po’ di zecchini, di napoleoni e ogni Natale, ogni Pasqua partivano a quella volta di donativi di moscato, di caciocavalli, di capretti, di agnelli e arrivavano maraschino e aragoste.

Un lago l’Adriatico, dolcissimo, mansuetissimo lacus nostrus, ci si navigava col solo passaporto della confidenza, a tal punto che non sapevamo bene se sull’altra sponda, nei porti dove potevamo approdare come al nostro lido, regnasse il turco o il serbo o l’austroungarico: lacus nostrus di noi adriatici indiscriminati, veneti, illirici, e magnagreci. I velieri andavano da Rosi Garganico a Lussinpiccolo, a Spalato con la stessa serenità con cui i comballi manzoniani vanno da Bellagio a Coma, da Stresa ad Arona. I rapporti esterni dell’isola garganica si riducevano a quel placido commercio familiare d’oltremare. Fosse Napoli la capitale o, per sentita dire, il governo dell’ex felice reame di Franceschiello si fosse insediato provvisoriamente a Roma, la capitale vera era Trieste. Tutte le crisi di noi vecchie famiglie paesane e campagnole con un leggero fumo, con qualche sussiego spagnolesco tutte si risolvevano e o non si risolvevano a Trieste, cliente perpetua dei nostri agrumeti per conto dell’intera Europa centrale. E da Trieste, dolce nome che in dialetto pronunziavamo quasi all’inglese Trajèst, ci venivano con gli stessi velieri degli agrumi tutte le cose belle e nobili che finivano in vetrina e formavano la “mostra” dell’orgoglio, della dignità, della nobiltà familiare: la cristalleria di Boemia stile impero, le terraglie di Wedgood, le zuppiere, gli adorabili piatti decorati di cineserie in cui fumarono le nostre composte minestre casalinghe, tanto sinceramente rimpiante. Forse se n’è salvato ancora qualcuno, ma non saprei servirmene: non si può mangiare e commuoversi stupidamente, trangugiare il boccone e asciugarsi gli occhi.

Puglia, Orizzonti Salentini Editrice, n. 2, Roma, 1949

Francesco Maratea

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