Il sacco di Manfredonia e la storia di Giacometta che divenne la favorita del Sultano

by Eugenio D'Amico

Allarme, allarme, la campana sona
li turchi so’sbarcati alla marina…
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La sconfitta navale di Lepanto del 7 ottobre 1571 tolse alla Sublime Porta ottomana ogni velleità di conquista del mezzogiorno d’Italia, ma non per questo cessarono le scorrerie turche lungo le coste; attacchi rapidi ed improvvisi delle navi turche per far bottino, saccheggiando le città più esposte e per catturare cristiani da rivendere come schiavi, durarono fino alla prima metà del XIX secolo, quando una più efficace azione di difesa esercitata dalle flotte militari dei paesi rivieraschi europei, inclusa la nuova flotta militare borbonica e, soprattutto, l’attacco ai covi della pirateria sulla costa maghrebina, debellarono il fenomeno.

Fino ad allora anche sul litorale pugliese le incursioni turche, che si spingevano fino ai paesi dell’entroterra, alimentarono le storie drammatiche che i contadini si raccontavano intorno al fuoco nelle notti d’inverno e sulle aie nelle sere d’estate, e ancor oggi i racconti delle incursioni e dei saccheggi turchi costituiscono parte cospicua delle tradizioni dei luoghi.

Così a Manfredonia dura ancora la memoria del saccheggio e della distruzione della città ad opera di oltre cinquemila turchi guidati da Shalil Pascià che sbarcati da 56 galee all’alba del 16 agosto del 1620 misero a ferro e fuoco la città decretandone la decadenza: negli anni seguenti Manfredonia fu ricostruita lentamente intorno al Castello ma rimase a lungo solo un piccolo borgo che, ad inizio Ottocento, non superava i cinquemila abitanti, marinai che vivevano della pesca nel golfo e contadini che lavoravano i campi alle sue spalle.

Eppure prima dell’attacco turco Manfredonia era una ricca e fiorente città che contendeva a Vieste e a Bari il primato dei traffici mercantili con l’opposta sponda dell’Adriatico. Difesa da terra da una forte cinta di mura intervallate da torri e protetta sul mare dal castello, la città si sentiva sufficientemente sicura, soprattutto da quando, dopo la rimozione dalla carica di Vicerè di Napoli del Duca di Osuna, acerrimo nemico di Venezia, la flotta della Repubblica veneta, diventata amica, era tornata attivissima nel basso Adriatico.

Si trattava, però, di una illusoria sicurezza: la città non poteva permettersi il mantenimento di una forte guarnigione e quindi aveva a sua difesa pochi soldati, per giunta male armati, e il castello era carente di artiglierie e, nonostante i lavori di potenziamento dell’età aragonese, era scarsamente difendibile, poiché i suoi spalti si trovavano sotto il tiro di assalitori che avessero occupato le case circostanti, improvvidamente costruite più alte delle sue mura.

Lo sbarco turco perciò non fu assolutamente contrastato: a stento pochi cittadini riuscirono a rifugiarsi nel castello, mentre altri fuggivano verso i rilievi di Macchie o le paludi di Siponto. I turchi rivolsero la loro furia contro case e chiese, che furono incendiate e rovinate al suolo, e contro gli abitanti che non erano riusciti a fuggire, passando per le armi quelli che parevano troppo vecchi o deboli per il mercato degli schiavi e trascinando sulle galee le giovani donne destinate agli harem e gli uomini forti destinati al remo.

Tuttavia i pochi difensori del castello resistettero per due giorni agli assalti in attesa del soccorso delle milizie spagnole di stanza a Foggia. Ma quando don Francesco Carafa, Governatore di Foggia giunto all’altezza del Convento di San Leonardo resosi conto dell’inferiorità numerica delle sue truppe, preferì ritirarsi sui rilievi delle Macchie senza attaccare i turchi, persa ogni speranza, la guarnigione stremata trattò la resa.

I tre giorni di saccheggio durante i quali i turchi spogliarono la città di ogni sua ricchezza, lasciando solo macerie fumanti, sono ancora vivi nella memoria dei manfredoniani e alimentano storie e leggende come quella della statua del Cristo Deposto della Chiesa di San Francesco che, colpito dalle scimitarre sacrileghe dei giannizzeri, sanguinò copiosamente atterrendo e mettendo in fuga i turchi; o come quella dell’apparizione miracolosa sui contrafforti della contrada di Macchie di seimila cavalieri guidati dell’Arcangelo Michele schierati a difesa di Monte Sant’Angelo e del Gargano. Ma soprattutto resta nella memoria collettiva la storia della bellissima Giacometta portata schiava in oriente e divenuta la favorita del sultano.

Quando i turchi assalirono Manfredonia Giacometta Beccarini aveva otto-dieci anni ed era educanda nel convento di Santa Chiara. Dimenticata nel dormitorio dalle suore in fuga, fu catturata dai turchi che, colpiti dalla bellezza e dalla grazia della bambina, decisero di farne dono al sultano. Giacometta così finì così nell’harem di Costantinopoli dove prese il nome di Bassebà.

Nell’harem crebbe assistendo alle lotte intestine, agli intrighi ed alle congiure di palazzo che caratterizzarono la decadenza della Sublime Porta finita in mano a sultani inetti e crudeli che, persi nei loro vizi, esercitavano il potere condizionati dai comandanti dei giannizzeri e manipolati dagli eunuchi e dalle khasseki, le favorite, che erano le vere detentrici del potere. La stessa Bassebà, divenuta la favorita di Ibrahim I, acquisì grande potere all’interno del Serraglio, soprattutto quando diede alla luce un figlio. Ma proprio l’aver dato un possibile erede al Sultano mise a rischio la sua vita. Nell’harem le favorite cercavano di condizionare la successione al trono a favore dei loro figli con tutti i mezzi, soprattutto quando, come nel caso di Ibrahim, alcolizzato, depravato e inutilmente crudele nella sua debolezza, il trono mostrava di vacillare. Qualcuno dunque, forse proprio la madre di un altro presunto successore di Ibrahim I, tentò di avvelenarla. Giacometta, salvata miracolosamente, fu quindi imbarcata insieme al figlio per un pellegrinaggio alla Mecca, forse proprio per sottrarla ad altri tentativi di assassinio.

Durante il viaggio, però, la galea che la trasportava fu attaccata da una nave dei Cavalieri di Malta e Giacometta, che non aveva mai dimenticato le sue origini, fu liberata e insieme al figlio Osman riabbracciò la fede cristiana. Osman poi diventerà frate domenicano con il nome di fra Domenico Ottomano di San Tommaso, giungendo a ricoprire la carica di Vicario Generale dei Monasteri di Malta.  

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