Il viaggio cinquecentesco di un duca buongustaio in Puglia

by Carmine de Leo

L’arcipelago delle isole Tremiti, oggi indiscussa meta turistica, lo era, seppure in misura minore, anche un po’ in passato.

Infatti, nel corso dei secoli e della sua lunga storia, fatta in gran parte di episodi militari, combattimenti navali ed assedi da parte dei pirati turchi, varie furono anche le visite di piacere all’abazia che le domina sull’isola di San Nicola, da parte di illustri viaggiatori che vi si recavano anche per studiarvi le poderose fortificazioni di Santa Maria di Tremiti.

Di uno di questi turisti ante litteram, se così possiamo chiamarli, ci resta una cronaca manoscritta conservata presso la Biblioteca Vaticana e risalente al XVI secolo, di cui ci parlò per primo uno studioso garganico, Alfredo Petrucci.

 L’autore di questa specie di diario di viaggio è rimasto anonimo, ma sicuramente doveva trattarsi di uno dei cortigiani al seguito dello stesso duca.

Il protagonista di questo viaggio è il duca di Urbino Francesco Maria I della Rovere che, proveniente da Benevento, proseguì per Troia e Torre Fortore, ove s’imbarcò per le isole Tremiti.

Nell’arcipelago il duca ebbe modo di visitare la chiesa ed il chiostro del convento di Santa Maria con i loro tesori artistici.

L’abazia era già famosa per la bellezza delle sue opere architettoniche e per i preziosi dipinti e sculture conservati, splendori che si associavano già allora alle bellezze naturali del luogo! Tanto da essere definita da un più recente viaggiatore ottocentesco, il francese Emile Bertaux, una vera e propria Montecassino in pieno mare!

Tornando al duca d’Urbino, questi dopo la visita alla chiesa ed il convento andò a pranzo dai monaci, sulla cui tavola, posiamo immaginare… pesce fresco, anguille allevate nei vicini laghi di Lesina e Varano ed altre prelibatezze innaffiate da ottimo vino di produzione dello stesso monastero.

Ma il duca Francesco Maria, nonostante tutto, ad un certo punto del pranzo, chiese ai monaci se vi era anche un po’ di carne ed i frati furono costretti a ricordargli che purtroppo la loro severa regola monastica dell’ordine dei Canonici Regolarti Lateranensi non gli permetteva di mangiare la carne.

Rimanendo molto deluso dalla risposta dei frati, il duca d’Urbino, dopo aver effettuato una breve escursione per vedere e, soprattutto, ascoltare le Diomedee, particolari uccelli marini, albatri urlatori, che, secondo una leggenda, emettevano lamenti umani perché incarnavano gli spiriti dei compagni del re Diomede, qui sbarcato dopo la guerra di Troia, decise di riprendere subito il mare.

Mal gliene incolse, perché  naufragò ben presto sulla sponda balcanica dell’Adriatico, nei pressi di Ragusa, l’attuale cittadina di Dubrovnik.

Da Ragusa raggiunse poi il porto di Zara e da qui riuscì a tornare in Italia, sbarcando infine nel porto di Pescara.

Dalla cittadina di Pescara ritornò  infine nel suo ducato ed alla corte di Urbino, appena giunto, ordinò subito un bel piatto abbondante i carne!

Del resto, nelle isole Tremiti, i poveri frati Lateranensi non avrebbero potuto neppure offrire al duca di Urbino un po’ di selvaggina; infatti, anche gli uccelli chiamati Diomede, da un autore Seicentesco, Giovanni Battista Pacichelli, veniamo a conoscenza che non costituivano certamente una buona pietanza: somiglianti gli stormi al volto uman nella faccia, che fritti e bolliti ed appesi stillan olio fetente, a guisa di grasso, conservato in vasetti di creta, utilissimo per l’untione pe’ dolori freddi.

Quindi, salvo un buon piatto di pesce, per il duca buongustaio non vi erano speranze!

A dire il vero, i frati, in quei tempi, oltre alla frutta fresca per combattere lo scorbuto, offrivano  pesce salato e producevano anche pane e gallette o biscotti per i marinai della flotta della Serenissima Repubblica di Venezia, impegnata in tutto il mare Adriatico nella lotta contro i pirati Turchi.

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