La disarmante saggezza del Lazarillo di Tormes, antesignano dei “ragazzi di vita”

by Marilea Poppa

Lo aveva dipinto Francisco Goya in compagnia di uno dei suoi padroni, il cieco, avvinghiato con le mani al collo nel tentativo di scovare il pezzo di salsiccia rubato con una delle tante marachelle escogitate per scampare alla perenne condizione di indigenza causata dalla fame e dagli stenti di una travagliata esistenza. Sono passati circa cinquecento anni dalla pubblicazione di un grande classico della letteratura spagnola, “Il Lazarillo de Tormes”, considerato il capostipite del romanzo realista e della letteratura picaresca.

L’originalità di questa pubblicazione (nata simultaneamente nel 1554 in tre città) risiede non soltanto nella sua forza innovatrice, capace di creare un nuovo genere letterario a cui la letteratura occidentale guarderà e si ispirerà nel corso dei secoli, ma soprattutto per aver dato vita ad un tipo letterario immortale: il picaro o il “ragazzo di vita” come lo definì Pierpaolo Pasolini, che vanterà di numerosi confratelli in tutta Europa. 

L’identità del creatore di Lazarillo resta ancora oggi avvolta dal mistero, nonostante la sua abilità letteraria ci consenta di tracciarne un ritratto approssimativo: basta leggere il prologo per percepirne l’accuratezza stilistica, l’affinamento culturale e, ancor meglio, per comprendere l’architettura di un’opera scritta in forma epistolare da un ormai adulto banditore Lazaro de Tormes, uomo di bassa condizione sociale, che si rivolge con riverenza ad una “Vostra Grazia” (Vuestra Merced)  narrando per esteso le peripezie e le avversità vissute di padrone in padrone quando ancora era un bambino.

Pare che la dedicataria dell’opera fosse una donna e avesse chiesto spiegazioni in merito alle dicerie che circolavano sulle vicende personali di Lazaro, pronto in qualche modo a giustificare le proprie azioni. L’io narrante si nasconde quindi dietro un personaggio di fantasia, il protagonista dell’opera, raccontando con sottile ironia le ristrettezze cui è costretto a far fronte.

Non mancano suggestioni letterarie che indicano come l’autore possa essere un fedele cortigiano del sovrano straniero Carlo V, un frate chiamato Juan de Ortega studente di Salamanca o ancora, per una certa affinità stilistica, lo scrittore e poeta Diego Hurtado de Mendoza, il cui nome compariva già su alcune edizioni. “Il Lazarillo non va comunque considerato un libro anonimo, nato da penna ignota: piuttosto un libro apocrifo, attribuito com’è a un falso narratore, Lazaro de Tormes, sul quale il vero autore ha indubbiamente puntato per ottenere la voluta illusione di realtà […]” come afferma Francisco Rico, uno dei maggiori critici e studiosi della letteratura spagnola, nella prefazione dell’ultima pubblicazione a cura della casa editrice “Adelphi”. Certo è che nessuno prima aveva compiuto qualcosa di simile: raccontare una storia di indigenza attraverso gli occhi di un giovane malcapitato, costretto a guadagnarsi da vivere scampando alla crudeltà di una serie di padroni e, più in generale, a sopravvivere alle brutalità del mondo.

Lazarillo era nato sulle rive del fiume Tormes da un padre mugnaio e da una madre di reprensibili costumi, venendo affidato alle “cure” di un cieco che gli permetterà di svegliarsi dall’ingenuità e dall’illusione proprie della tenera età e dell’incapacità di stare al mondo; la zuccata contro il toro rimediata sul ponte di Salamanca rappresenta il culmine degli insegnamenti che il cieco gli impartirà, almeno fino a quando non sarà lo stesso eroe del romanzo a liberarsene con una cruda vendetta.

Se poi la fame aguzza l’ingegno, per Lazarillo è una verità assoluta: ogni marchingegno è volto al conseguimento di un frammento di pagnotta, di un pezzo di salsiccia o di un sorso di vino a detrimento di un cattivo padrone. Insomma, una specie di servo trickster alle prese con le sfide di una quotidianità tormentata che gli toglie il sonno tenendolo il più delle volte all’erta. Non tutte, perché nella dialettica servo-padrone Lazarillo non l’avrà sempre vinta sulla miseria e sulla fame di cui non se ne vede mai la fine. Verrà scoperto, malmenato e talvolta abbandonato da padroni senza scrupoli che si succederanno lungo la narrazione, spingendo noi lettori a sorridere ad ogni peripezia non senza provare un senso di compassione per le sue sventure.

Dopo il cieco sarà la volta di un prete, poi di uno scudiero, quindi di un venditore di bolle e di un cappellano: tutti passati in rassegna per vizi e virtù, criticati apertamente dall’autore che non perde occasione per regalare al lettore acute osservazioni sul contesto storico sociale spagnolo del Cinquecento (nel periodo compreso tra i sovrani Carlo V e Filippo II) e sugli stereotipi della Spagna dell’epoca.

Si pensi al concetto di honra (onore) incarnato dagli scudieri caduti in miseria o all’ipocrisia del mondo ecclesiastico rappresentata dall’abilissimo venditore di indulgenze e dall’arciprete coinvolto in una tresca amorosa con la sua domestica, futura moglie di Lazaro, della quale quest’ultimo prenderà le difese al termine dell’opera, una volta raggiunta una condizione di benessere. Inevitabile che un’opera simile finisse, nel 1559, sulla lista dei libri proibiti dal tribunale dell’Inquisizione; altro motivo che potrebbe giustificare la mancata paternità dello scritto.

Probabilmente non ci sarà mai data la possibilità di conoscere l’autore di un classico intramontabile come il “Lazarillo di Tormes”, ma è a lui che dobbiamo l’invenzione di un personaggio che ha fatto di necessità virtù, che non si è arreso alle ingiustizie di una società impietosa e non si è ribellato alle leggi del mondo ma le ha raggirate, inventando e insegnando, con disarmante saggezza.

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