“La Prora”, il giornale dimenticato della Manfredonia fascista

by Maria Teresa Valente

Vivere non è necessario, ma è necessario navigare. Si apre con questa massima del Duce il primo numero de ‘La Prora’, bollettino quindicinale del Fascio di Combattimento di Manfredonia stampato in riva al Golfo nel settembre del 1941, anno XIX dell’era fascista.

Al di là delle ideologie politiche, il fascismo rappresenta un pezzo della storia italiana ed è la fotografia di quasi un secolo fa che viene fuori sfogliando questa rivista stampata a Manfredonia di cui mai prima d’ora si era parlato pubblicamente dopo il termine della seconda guerra mondiale.

Ecco dunque che, grazie alla magia della rete e alla possibilità di reperire documenti digitalizzati (che altrimenti resterebbero al chiuso delle biblioteche ad impolverarsi), ho potuto scoprire un giornale che, tra celebrazioni di eroi e consigli alle massaie, restituisce uno spaccato di vita vissuta nella nostra terra.

Diretta da Luigi Rogato, che a Manfredonia fu un direttore didattico, la rivista si apre con un saluto rivolto ai lettori dove si evidenzia che tale pubblicazione è indirizzata “alle Camicie Nere e al popolo di Manfredonia” e che “il suo titolo esprime insieme il destino del porto di Capitanata e quello del nostro popolo che, per le particolari provvidenze del Duce, ora più che mai tende la sua volontà oltre le sue sponde”. Da sottolineare che solo pochi mesi prima, ovvero nel maggio del 1941, Benito Mussolini venne in visita ‘segreta’ a Manfredonia per sincerarsi personalmente dell’efficienza del porto di Manfredonia, scelta come base per la spedizione di materiali e viveri ai reparti operanti in Albania e in Grecia (foto tratta dal libro “Manfredonia. Percorso fotografico di una città scomparsa” di Marco Guerra).

Nell’articolo di apertura, la guerra in corso viene descritta come “lotta decisiva di civiltà e di giustizia” e come una “crociata” voluta da Dio in persona per sconfiggere “la demoplutocrazia e il bolscevismo, in alleanza con la cricca giudaica massonica”. Una guerra che, molto ottimisticamente (possiamo affermare oggi col senno del poi) si era convinti che sarebbe terminata soltanto con la “luminosa vittoria dell’Asse”.

In riva al Golfo protagonisti della guerra, come si legge nel giornale “La Prora”, non erano solo i soldati al fronte, ma anche “il fabbro col maglio, il contadino con l’aratro, l’artefice del pensiero con la penna, l’adolescente col libro e col moschetto, la donna con l’onestà e con l’economia”. È a tutti gli strati sociali che si rivolgeva la rivista, con un’evidente opera di propaganda fascista, come si usava all’epoca.

Sfogliando l’inedito quindicinale scopriamo che dall’1 al 31 agosto del 1941 a Manfredonia vi sono stati 60 nuovi nati, 25 morti e 12 matrimoni. Nel bollettino degli “Universitari fascisti di Manfredonia nella guerra per il popolo”, vennero contati 79 iscritti di cui 53 sono alle armi, 2 i prigionieri e 2 i feriti, infine vi fu un disperso ed un caduto. Ed a quest’ultimo, l’appena ventiquattrenne Rosa Raffaello, è dedicato un intero articolo in cui “Manfredonia con fierezza ed orgoglio” lo ha iscritto nelle pagine della sua storia quale “uno dei suoi figli più genuini”, “immolato per la grandezza dell’Italia e dell’Impero”.

Interessante scoprire l’attivismo delle donne di Manfredonia, che venivano coinvolte in corsi per “Operaie Lavoranti a Domicilio di economia domestica, di taglio, di confezioni e corsi di puericoltura per il buon allevamento della prole”. Si apprende che si sostituirono agli uomini, impegnati al fronte, nella mietitura del grano con ottimi risultati. Si legge inoltre di “conversazioni” alle “Massaie Rurali sulla necessità di intensificare l’allevamento degli animali da cortile per aumentare la produzione della carne e delle uova”, e di trasformare “dei giardini in orti di guerra”. A proposito di ciò, sempre dalla stessa rivista si evince che il Podestà di Manfredonia, “in ossequio all’alto comando del Duce ha già stabilito di trasformare in orti il fossato del Castello ed i giardini pubblici”, invitando tutti i cittadini a coltivarli e sfruttarli al massimo e stabilendo anche premi per i privati e le massaie “che si distingueranno in tale opera civica”. È lo stesso Mussolini, infatti, che in un telegramma inviato a tutti i podestà d’Italia aveva chiesto che “non una zolla di terra rimanga incolta”, poiché “si potrà vincere la guerra – e si dovrà vincerla – soltanto se non mancheranno gli alimenti, per i combattenti e per il popolo tutto”.

Apprendiamo che alle donne sipontine venne lanciato l’appello della “lana ai nostri soldati”, chiedendo loro di preparare pacchi con passamontagna, guanti di lana, calze e “mutande di tessuto flanellato”, ma anche “marmellata in scatola, carta da lettera, due matite”. Nel numero successivo, però, le stesse saranno redarguite per non aver risposto coralmente all’appello, fingendo spesso di non essere in casa.

E, ancora, sono le donne le destinatarie di una rubrica di economia domestica a firma di tale ‘Sipontina’, che con dettagliatissime istruzioni insegnava alle massaie a fare “detersivo” per biancheria lasciandola una notte intera in ammollo nell’acqua di cottura della pasta (o delle patate) a cui doveva poi essere aggiunta pochissima soda; “bucato senza sapone”, con colla da falegname, acqua e soda; “vero sapone”, con scarti di cucina (olio cotto più volte, burro rancido, strutto, grasso del brodo) ed aggiunta di soda caustica e ‘pece greca’ (resina).

Ma se il giornale ha un titolo marinaresco per sottolineare l’importanza del mare per la città di Manfredonia, non meno rilevante appare, anche nei numeri successivi, l’agricoltura nell’economia in riva al Golfo, tanto che veniva chiesto ai sipontini di informare i propri congiunti al fronte della possibilità di una licenza di ben 30 giorni, nel periodo compreso tra il 15 ottobre ed il 15 dicembre, per le semine autunnali.

Sfogliando la rivista emerge l’umorismo nei confronti degli inglesi. In una pagina spicca una vignetta satirica con due uomini dove uno indica all’altro la città di Mosca in lontananza e subito accanto mostra un carro armato con la svastica, e quindi tedesco, chiamato “Flitto”. Quest’ultimo termine richiama oggi in mente il vecchio insetticida, Flit, che dai nostri nonni veniva storpiato nel dialettale, appunto, ‘flitto’.

I cittadini di Manfredonia venivano invitati a “resistere per vincere” e in un articolo si leggono indicazioni su cosa e quanto mangiare, con precise istruzioni sul quantitativo di pane che non poteva sforare i 200 grammi al giorno.

Il duce sul porto di Manfredonia (Foto tratta dal libro di Marco Guerra)

Nei vari numeri del bollettino vi si trovano narrate con enfasi e ‘ardore’ le storie di diversi manfredoniani che giovanissimi sono caduti in guerra divenendo eroi in patria. Vi è Michele Spagnuolo, morto in Africa; il cannoniere Giovan Battista Cataleta, deceduto in servizio sulla torpediniera “Climene”. E poi ci sono le numerose onorificenze concesse ai valorosi soldati manfredoniani che al fronte si distinguevano per gesta ‘ardite’, come Dino Donnamaria e Antonio Riccardi che, imbarcati su due diverse torpediniere, fronteggiarono il nemico “sprezzanti del pericolo”.

E, direttamente dal 1941, giunge la lettera di uno dei ‘Combattenti di Gondar’, il militare sipontino Carlo De Padova, Vice Brigadiere della Polizia Coloniale in Etiopia, che scrisse all’ “amatissimo papà”, per rassicurarlo sul proprio stato di salute, salvo poi ricordargli che, qualsiasi cosa gli fosse accaduta, “dolce e decoroso è il morire per la Patria”.

Sfogliando “La Prora” si compie un vero e proprio tuffo nel passato e sembra quasi di veder affiorare dalle pagine ormai ingiallite volti e vicende di un’epoca che sui libri di storia appare così lontana, ma è stata invece vicina e presente.

Eppure, tra i numerosi pezzi ricchi di particolareggiate descrizioni non traspare mai la guerra col suo carico di dolore e preoccupazione. Un silenzio che stride ed appare oggi paradossale, ed invece era per l’epoca incredibilmente normale e non poteva essere diversamente poiché, come si legge a caratteri cubitali qua e là: “Taci! Il nemico ti ascolta”. Una massima che, nonostante la continua esaltazione di eroiche gesta che sembrano donare fascino alla guerra, ricorda che la libertà, anche quella intellettuale, dopotutto era solo una chimera.*

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