L’abbazia di Càlena, testimonianza del Medioevo italiano

by Teresa Rauzino

Alla scoperta dell’ideale che i monaci di Càlena hanno cercato di realizzare lungo il corso di oltre sette secoli nella struttura conventuale che li ospitava e al tempo stesso li proteggeva, abbiamo dedicato le nostre indagini e l’impegno di una vita. Le voci dirette dei protagonisti, attraverso gli scritti, le loro meditazioni e riflessioni, avrebbero potuto comunicarci al meglio le esperienze, il loro messaggio. Purtroppo tali testimonianze mancano. Ci resta la possibilità di consultare i documenti di carattere giuridico: regole, privilegi, conferme o revoche di elezioni abbaziali, testamenti, contratti, donazioni. Proprio qui cercheremo di cogliere, al di là delle frasi e delle parole, l’atteggiamento profondo e le intenzioni di chi le ispirò.

Qualsiasi discorso preliminare sulla storia benedettina calenense non può esimersi dal richiamare la Regola di San Benedetto; essa non è soltanto un codice di norme disciplinari, ma anche un programma di vita spirituale; rappresenta il meglio di tutta la tradizione monastica precedente. Basata su un solido senso pratico e sulla conoscenza realistica della natura umana, non esige dai suoi aderenti sforzi impossibili, come era invece consueto in altri gruppi monastici di quel periodo. Il monaco benedettino deve pregare, ma anche leggere, insegnare agli altri, coltivare la terra ed accudire i bisognosi.

L’attenzione per l’individuo si manifesta nella virtù della “discrezione”, richiesta soprattutto all’abate: nell’amministrare le faccende quotidiane del convento, egli deve tener conto delle diverse esigenze dei suoi confratelli, deve alternare il rigore e la dolcezza dimostrando, a seconda delle circostanze, la severità del maestro e l’indulgente affetto del padre. Composta per la comunità di Montecassino, questa Regola si diffuse in quasi tutti monasteri d’Europa.

In Puglia si affiancò in un primo tempo alla tradizione locale, su cui era notevole l’influsso del monachesimo basiliano. 

Sembra non abbiano fondamento storico le notizie di comunità fondate dai santi Mauro e Placido, anche se quasi tutti i monasteri, specialmente i più ricchi e potenti, cercarono di costruirsi una nobiltà di origine, vantando la tempestiva adozione della Regola, ricevuta dalle mani stesse dei discepoli di san Benedetto.

NelI’XI e XII secolo varie abbazie benedettine, ancorate al tetragono motto “Ora et labora”, si stanziarono in area garganica. Esercitarono una straordinaria influenza spirituale ed economica, testimoniata dalla grande estensione dei possessi territoriali e dall’imponenza delle strutture insediative. 

L’ordine monastico fondato da San Benedetto, con il sostegno della nuova potenza normanna e sotto la spinta della riforma gregoriana si impegnò in uno sforzo di capillare penetrazione nelle regioni meridionali. 

In tale contesto, la comunità monastica di Santa Maria di Càlena presso Peschici, a partire dall’XI e per un lungo arco di secoli, svolse un ruolo importante nello sviluppo economico e culturale del Gargano nord-occidentale. 

Ciò è emerso con evidenza dall’esame delle fonti documentarie e dalla lettura dei resti monumentali dell’abbazia effettuati dalla storica dell’arte Adriana Pepe, in occasione della mostra “Insediamenti benedettiniin Puglia”, svoltasi a Bari nel 1980. La successiva mostra “Architettura sacra medievale del Gargano”, promossa dal Gruppo Archeologico “Silvio Ferri” di Vico del Gargano, offrì alla Pepe un’ulteriore occasione per riproporre all’attenzione di tutti queste preziose testimonianze della storia e della cultura garganica, sollecitando una necessaria azione di tutela.

Le fabbriche di questa antica abbazia benedettina, oggi utilizzate come azienda agricola, distano un chilometro e mezzo dal centro abitato; sono protette sui fianchi dal promontorio di Peschici e dai boschi di Monte Pucci, con la possibilità di un rapido collegamento con il mare, distante meno due chilometri. 

La piana di Càlena

I benedettini, nella scelta dell’ubicazione delle loro badie, miravano all’utilizzo di un approdo sul mare o alla foce di un fiume: Santa Maria di Càlena è un monastero costruito in posizione privilegiata sulla costa. Fu proprio la favorevole posizione topografica a permetterne il rapido sviluppo.

La prima fase della storia di Càlena, strettamente connessa con quella della potente abbazia di S.Maria di Tremiti da cui dipendeva, risulta sufficientemente documentata; ciò non può affermarsi peril periodo successivo. Molte sequenze della sua complessa vicenda restano oscure. L’archivio di S. Maria di Càlena, unito nel 1455 a quello dell’abbazia di Tremiti, ne condivise le sorti: i documenti, confluiti nel fondo “Pergamene” dell’Archivio di Stato di Napoli, furono incendiati a Villa Belsito nel 1943 dai tedeschi.

A tutt’oggi sembra perduto anche quel “Memoriale di Càlena”, citato nel 1592 dal canonico lateranense Timoteo Mainardi nel suo manoscritto “Raggioni del monastero di S. Maria di Tremiti cavate da diversi istromenti, donazioni et altre”.

Il Memoriale, contenente i regesti e i documenti dell’abbazia di Càlena, era stato rinvenuto dal Mainardi nell’archivio tremitense.

I canonici lateranensi erano impegnati in un difficile tentativo di recuperare gli antichi possedimenti delle abbazie di Santa Maria di Tremiti e di Càlena, usurpati sia dai feudatari laici sia dalle varie università e lo facevano documentando le varie donazioni ricevute da papi, principi, imperatori e privati, registrate scrupolosamente negli inventari.

Il Regesto del Mainardi, che abbiamo vagliato in una specifica indagine, riporta dati inediti, senza dubbio interessanti per determinare esattamente l’estensione e la consistenza del patrimonio calenense. Non ci documenta la notizia della fondazione del “monastero” di Càlena nell’872, ad opera di Ludovico II, riportata dal Giannone.

Il primo documento a noi noto(1023) resta l’atto con cui Leone, vescovo di Siponto, donò a Roccio, abate del monastero benedettino di Tremiti, «una ecclesia deserta in loco que vocatur C(K)àlena, cuius vocabulum est Sancta Maria».

Esso attesta la presenza in questa località di una chiesa preesistente all’insediamento monastico attuale. Per consentire un autonomo insediamento sulla terraferma dei benedettini di Tremiti, Leone dotò i modesti beni di Càlena, «una terricella in circuitu de ipsa ecclesia cum ipso pastinello», di quattro appezzamenti di terra acquistati da alcuni componenti della colonia slava di Peschici, con i boschi vicini.

Alcuni anni dopo, precisamente nel 1053, questi slavi strinsero ulteriormente il proprio rapporto con Tremiti, donandole la chiesa di Santa Maria che avevano costruito nella vicina piana di Calenella, una chiesa rurale di fondazione privata, con una piccola estensione di terreno e i boschi circostanti. Queste prime donazioni costituirono il primo nucleo dei futuri, consistenti possessi fondiari di Càlena.

Adriana Pepe ipotizza un rapido sviluppo della nuova comunità monastica, sulla scia della crescente influenza spirituale e conseguente ascesa economica della casa madre di Tremiti che, disimpegnandosi abilmente fra comitati longobardi, autorità bizantine e nuove forze di pressione normanne, già entro la prima metà dell’XI secolo controllava vasti territori in Abruzzo, nel Molise e sulle coste settentrionali del Gargano.

Càlena, enumerata nel 1053 da papa Leone IX tra i possessi di Tremiti quale semplice chiesa, appena qualche anno dopo, nel 1058, venne riconosciuta da Stefano IX come abbazia indipendente, sotto la diretta protezione della Santa Sede. 

Da questo momento in poi sarà inclusa soltanto formalmente fra i possessi di Tremiti.

La sua piccola dotazione iniziale si trasformò in un cospicuo complesso di beni fondiari, concentrati lungo la fascia costiera settentrionale del Gargano, dalle sponde del lago di Varano al territorio di Vieste.

In questi anni e negli anni successivi le vennero donati numerosi terreni, vigne, oliveti, casali, case, castelli, corti, chiese, mulini, bestiame. 

Questa generosità nelle donazioni alla Chiesa era molto diffusa nel Medioevo: trovava le sue motivazioni emotive nel desiderio dei donatori di assicurarsi la remissione dei peccati dopo la morte. Ciò è confermato dalle formule che spesso accompagnano gli atti di donazione: «pro animo meo, pro mea salute, pro remedio animae». Una pratica che si spiega anche come un “prudente calcolo politico” per sottrarre le proprietà immobiliari ai pericoli di guerre, devastazioni, alienazioni ed espropri, mettendole al sicuro nelle mani della Chiesa.

In effetti, i grandi feudatari, ma soprattutto i piccoli proprietari che non avevano alcuna protezione giuridica nelle instabili condizioni politiche e sociali di quel tempo, con saggia cautela amministrativa, posero i loro beni sotto il sacro segno del “bonum ecclesiae”, non dimenticando tuttavia di riservare per sé e per i propri eredi l’usufrutto sugli immobili donati.

L’abbazia di Càlena diventa, quindi, un centro civile in cui si intrecciano e confluiscono istanze e significati religiosi, sociali, economici e politici. «La difficoltà di far collimare con la realtà attuale del territorio i generici riferimenti topografici e la ripetitività delle formule notarili della documentazione medievale – sottolinea Adriana Pepe – non consentono una completa ed esatta ricostruzione dell’area di pertinenza dell’abbazia. 

Ma un dato emerge: alle terre incolte e ai boschi, che costituivano gli iniziali possessi fondiari, si sostituisce una rete di nuclei produttivi, dotati di impianti di trasformazione. Terre seminative e vigneti caratterizzano il paesaggio agrario dell’area di pertinenza dell’abbazia; questi nuclei daranno origine a nuovi abitati rurali».

La cella della SS.ma Trinità di Monte Sacro era molto decentrata rispetto agli altri possedimenti di Càlena, ma le comunicazioni con essa erano assicurate da alcune vie mulattiere, che sin dall’antichità collegavano i centri abitati della costa settentrionale garganica al porto di Siponto. 

La Alvisi le ha individuate con il sussidio della fotografia aerea. 

Una strada che collegava Peschici a a Monte Sacro è citata espressamente in un documento del Codice Diplomatico pubblicato da Armando Petrucci. 

L’utilizzo di queste strade si intensificò con lo sviluppo del Santuario di Monte Sant’Angelo e la creazione delle grandi abbazie garganiche. È proprio nel quadro dei rapporti con il centro più importante della spiritualità garganica che il possesso di Monte Sacro assunse un particolare interesse per i benedettini di Càlena. Di qui ebbe origine la lunga e difficile contesa che nel corso del XII secolo oppose l’abbazia di Peschici alla sua antica dipendenza (1127-1198).

La comunità benedettina di Monte Sacro aveva raggiunto uno straordinario prestigio proprio per la sua vicinanza alla Grotta dell’Arcangelo, meta dei grandi pellegrinaggi medievali. Riceveva ricche donazioni immobiliari anche nei maggiori centri portuali pugliesi come Trani, Bisceglie, Molfetta, Bari ed era diventata molto influente.

Nel 1198 riuscì ad affermare la propria autonomia dalla casa madre di Càlena, offrendole in cambio le sue proprietà di Molfetta, tra cui la chiesa di San Giacomo, case, vigne ed oliveti. 

Secondo la Pepe, la vertenza rivela aspetti interessanti, che la documentazione disponibile non chiarisce a sufficienza: nelle prime fasi della contesa, Onorio II avrebbe imposto a Càlena, in cambio del riconoscimento dei suoi pieni diritti su Monte Sacro, l’adesione all’ordine monastico che faceva capo alla potente abbazia di Cava dei Tirreni (Ordo Cavensis).

Nella seconda metà dell’XI secolo anche S. Maria di Càlena aveva dovuto difendere la propria indipendenza. Secondo fonti cassinensi, durante il concilio di Melfi del 1039, il principe Riccardo di Capua aveva donato l’abbazia di Càlena a Montecassino; successivi privilegi papali comproverebbero tale donazione, mentre una bolla di Niccolò II del 1061, confermata da successivi pontefici, include ancora Càlena fra i possessi di Tremiti.

Il Leccisotti è del parere che «nei documenti medievali, per una di quelle che a noi sembrano contraddizioni, non è raro trovare riconosciuti a vari pretendenti i diritti su uno stesso luogo. Era però una platonica affermazione rilasciata dal concedente, che spesso non verificava attentamente titoli relativi, fondandosi sulla semplice proposta dell’interessato. Che poi questi potessero passare al possesso effettivo era tutt’altra cosa».

Al di là delle polemiche degli storici circa l’autenticità del documento cassinense, la contraddittorietà di tali testimonianze, secondo Adriana Pepe, evidenzia una complessa vicenda che vide Montecassino e Tremiti, da sempre impegnate nel disfare vecchi equilibri e nel tesserne di nuovi, per adeguarsi alla nuova potenza normanna. 

Filippo Fiorentino, nel saggio “Il Gargano nel secolo XI alla luce del Chartularium tremitense”, sottolinea i motivi politici che spinsero il normanno Riccardo a scegliere l’influenza dei monaci cassinensi, più fedeli alla Chiesa di Roma, piuttosto che il diretto controllo dei benedettini di Tremiti, i quali continuavano a fare causa comune con i rappresentanti del governo di Bisanzio.

Le motivazioni politiche sono evidenti. S. Maria di Càlena, nonostante la perdita di Monte Sacro, la più ricca delle sue dipendenze, fra la fine del XII e gli inizi del XIII secolo possedeva consistenti beni immobili; controllava oltre ai pascoli, i diritti di pesca sul lago di Varano, mulini sui piccoli corsi d’acqua nella zona di Montenero, Rodi e Vico, ed alcune saline nei pressi di Canne; tutti elementi di fondamentale importanza nell’economia medievale, come dimostrano le numerose controversie, documentate dal Mainardi, tra Santa Maria di Càlena ed alcuni signori feudali per il controllo del Lago di Varano.

Il diritto di ricevere “redditum sertarum anguillarum”, cui i monaci tenevano molto per il loro strettissimo vitto di magro, proveniva proprio dal Gargano: avere possessi sulle rive dellago di Varano era un privilegio ambito. Le anguille copiose di quella laguna costituivano una risorsa per le mense monastiche che non conoscevano la carne. Questa fu una delle ragioni per cui anche alcuni monasteri lontani, come Montecassino e Cava, cercavano di procurarsi delle “pescherie” nei laghi costieri garganici.

Santa Maria di Càlena si trasformò in una vera e propria signoria ecclesiastica, secondo un processo comune anche ad altre abbazie del Gargano e della Capitanata. Il monastero esercitava diritti feudali sui castra di Imbuti, di Peschici e Montenero (in agro di Vico del Gargano); numerosi borghi rurali, che si erano sviluppati intorno agli originari nuclei produttivi delle “celle”, erano soggetti alla sua giurisdizione. 

Nell’ambito di questi rapporti feudali, si inquadrano le liti con alcuni signori laici, quali Raone di Devia nel 1173 e, più tardi, Enrico de Girardo nel 1305 che, a più riprese, tentarono di sottrarre all’abbazia i casali di Imbuti e Montenero, punti chiave dell’economia calenense.

A partire dal XIII secolo, la documentazione relativa a Càlena diventa assai lacunosa. La Pepe suppone che l’organicità del suo patrimonio fondiario, concentrato nel Gargano ad eccezione di alcune proprietà a Campomarino, a Canne e a Molfetta, rese possibile l’amministrazione diretta da parte dei benedettini.

Càlena non fu colpita dalla generale crisi spirituale ed economica che nel corso del Duecento investì le abbazie garganiche. Mentre i benedettini di Tremiti, sottoposti a processo, nel 1237 furono costretti a lasciare le isole per far posto ad una comunità di frati Cistercensi provenienti dall’abbazia abruzzese di Civitella Casanova, la comunità benedettina di Càlena riuscì a mantenere la propria autonomia. Anzi, sottraendosi ai tentativi dei cistercensi di ricostruire integralmente l’antico patrimonio di Tremiti, proprio nel corso del XIII secolo, i monaci calenensi aprirono un impegnativo cantiere per il rifacimento della chiesa abbaziale più recente.

Il Concilio Lateranense IV(1215), indetto ed attuato alla fine del pontificato di Innocenzo III, di fronte ad una situazione generale difficile, di profonda crisi delle varie comunità monastiche benedettine, aveva cercato di correre ai ripari, raccomandando l’istituto del capitolo generale che già aveva dato buoni risultati nell’ordine cistercense. 

Furono imposte riunioni triennali a tutti gli abati e ai priori di ogni regione o di ogni Stato, allo scopo di scegliere di comune accordo i cosiddetti “visitatori”, per controllare e riformare le comunità. Al tempo stesso venne interdetta la creazione di nuovi ordini monastici e di nuove regole religiose.

Furono emanate norme precise per l’elezione degli abati; se una comunità non giungeva ad accordarsi sul candidato entro tre mesi, perdeva automaticamente il diritto di elezione, che passava all’autorità superiore. Questa clausola consentì, per i secoli successivi, molti interventi della Santa Sede nei monasteri pugliesi. Non sembra che il Concilio abbia prodotto grandi effetti, se in seguito dovette intervenire con un tentativo più organico.

La bolla “Summi magistri” del 20 giugno 1336, conosciuta comunemente come la “bolla benedictina”, fissò in 39 articoli il programma di riforma monastica; i monasteri furono raggruppati in 36 province, ognuna delle quali era tenuta ogni triennio a radunarsi in capitolo. Nel periodo successivo al Concilio, e particolarmente nell’epoca avignonese, si registrarono vari interventi da parte dei pontefici. Ne annotiamo uno riguardante proprio l’abbazia di Peschici: nel 1313 Clemente V non conferma l’elezione dell’abate, ma preferisce inviarvi il monaco Nicola, di San Paolo di Roma.

Indubbiamente si tratta di una realtà nuova nella storia del monachesimo. Ma cosa ancor più sorprendente è il trasferimento di abati da un monastero ad un altro, in contraddizione con la tradizione della stabilità che prevedeva un legame indissolubile tra l’abate, legittimamente eletto, e la propria comunità: ne era segno esteriore l’anello che ogni abate portava al dito. La stessa Curia romana riconosceva una tale consuetudine se ogni volta, in occasione dei trasferimenti, riteneva opportuno sciogliere il neo-eletto dal vincolo che lo legava al primitivo monastero con la formula: «… a vinculo quo ipsi monasterio tenetur absolvens».

Quali motivi profondi determinarono gli interventi della Santa Sede? 

Indubbiamente il desiderio di arrestare la decadenza dei monasteri, in crisi quasi dappertutto. 

Non si può escludere, secondo il Lunardi, che i papi approfittassero di questo mezzo per rafforzare il loro potere, specialmente in epoche in cui la lotta contro l’impero toccò i momenti più drammatici.

Di certo la loro azione riuscì solo a rallentare l’inesorabile decadenza dei monasteri pugliesi: nel corso del XIV secolo, ridotti ad un’ombra della gloria passata, uno dopo l’altro divennero benefici ecclesiastici devoluti alla Santa Sede e affidati ad abati commendatari. 

Alle soglie del 1400 anche Càlena, dopo secoli di effettiva indipendenza, non riuscì a sottrarsi all’ormai generalizzato istituto della “commenda”: fu affidata per qualche decennio al vescovo di Lucera, prima di essere annessa nuovamente all’abbazia di Tremiti (1445-1446).

La comunità benedettina fu sostituita dai Canonici Regolari Lateranensi, da alcuni decenni insediati nell’arcipelago, che riorganizzarono le sue ancora consistenti proprietà fondiarie e ricostruirono le fabbriche conventuali. 

Le sorti dell’abbazia di Càlena resteranno legate a quelle di Tremiti: con la soppressione di quest’ultima, nel 1782, essa passò al Regio Demanio e successivamente (la data è ignota) fu acquisita dalla famiglia Martucci, che la utilizzò come azienda agricola.

La vicenda storico-economica, fin qui delineata, è oggi verificabile nelle tappe costruttive del complesso monastico, più volte ampliato a seconda delle esigenze e delle possibilità finanziarie della comunità. La stratificazione delle varie fabbriche è ancora leggibile, nonostante gli adattamenti contemporanei. 

Nelle strutture murarie attuali non sono riscontrabili tracce dell’edificio anteriore al 1023, ad eccezione di alcune lastre frammentarie in pietra calcarea decorate con motivi a intreccio (una è murata nella recinzione dell’attuale cortile). I frammenti sono databili al X secolo; il tipo di decorazione è presente nelle aree di cultura longobarda.

Secondo le ipotesi della Pepe, i benedettini provenienti da Tremiti restaurarono o addirittura ricostruirono l’edificio abbandonato avuto in dono dal vescovo Leone, fin dai primi decenni della loro presenza a Càlena; sicuramente prima del 1058, anno in cui il cenobio fu elevato ad abbazia. 

Questa fase è testimoniata dalla più antica delle due chiese presenti nel complesso conventuale. L’edificio, ubicato sul lato sud dell’odierno cortile, appartiene al noto gruppo di chiese pugliesi con cupole “in asse” sulla navata centrale e con volte a semi botte sulle navatelle, i cui esempi conosciuti sono in gran parte benedettini.

Se la chiesa con le cupole in asse si inserisce nel solco della tradizione pugliese, la “chiesa nuova”, che si addossa all’edificio più antico e ne prosegue l’orientamento, è costruita secondo modelli architettonici di vasta circolazione europea ed extraeuropea. 

La navata centrale, che si conclude con un’abside semicircolare, è suddivisa in due campate quadrate di dimensioni leggermente diverse, originariamente coperte a crociera. Le navate laterali, alte circa la metà di quella centrale, sono coperte da una serie di volte a “botte”.

Questa originale struttura si rifà a modelli costruttivi giunti dalla Francia, precisamente dalla Borgogna, nei regni crociati e reimportati in Europa dalla Terra Santa da maestranze itineranti di scalpellini che percorrevano nei due sensi la “via francigena”, con tappe al Santuario dell’Arcangelo e al porto di Siponto. 

Sullo scorcio del XII secolo, queste tipologie architettoniche si diffusero, oltre che a Càlena, nelle abbazie garganiche di Monte Sacro, di Pulsano e in alcune città come Monte Sant’Angelo, Barletta, Molfetta, Lecce, Otranto dove transitavano pellegrini e crociati.

Alcuni storici dell’arte hanno ipotizzato la presenza a Càlena di artigiani-artisti di scuola cistercense. Adriana Pepe ha escluso questa ipotesi, perché le notevoli asimmetrie della fabbrica non rispecchiano il rigore geometrico, la proporzionalità del loro linguaggio architettonico.

Che le maestranze di artigiani presenti nel cantiere di Càlena fossero del tutto, o in larga misura, “laiche” è dimostrato, secondo la Pepe, dai “contrassegni dei tagliapietra”, presenti sulla muratura della “chiesa nuova” dell’abbazia. Tale caratteristica accomuna questo edificio ad alcune fabbriche di età sveva e angioina: un confronto con i contrassegni presenti sui conci delle torri angioine del castello di Lucera offrirebbe spunti interessanti di ricerca.

In particolare, la parete sud della chiesa abbaziale di Càlena si distingue all’esterno per l’eleganza del paramento murario, articolato in una serie di arcate cieche e marcato da una gran varietà di contrassegni. Entro ogni arcata sono presenti raffinati elementi decorativi, fra cui un mascherone virile, una scodella intagliata a corolla, rosoncini variamente appiattiti o rigonfi, di ispido intaglio.

La scelta dei motivi e la qualità dell’esecuzione trovano riscontri in Terra Santa, oltre che sulle facciate delle chiese di Capitanata, Molise e Abruzzo. 

Questi motivi ornamentali testimoniano, ancora una volta, l’itineranza delle maestranze, intensificatasi dalla Terra Santa verso l’Italia meridionale dopo la caduta di Gerusalemme (1187).

La Pepe ha cercato di verificare se le scelte artistiche dei benedettini di Càlena, nelle varie fasi di costruzione dell’abbazia, abbiano inciso nelle soluzioni architettoniche degli edifici monastici rientranti sotto la sua diretta giurisdizione. 

La ricerca è stata condotta a Peschici, Vico, Rodi, Ischitella. 

Fra i siti citati dalle carte medievali ne sono stati rintracciati soltanto alcuni. Presentano resti degli antichi insediamenti, ma la possibile influenza delle scelte architettoniche elaborate a Càlena non è risultata verificabile, in quanto le suddette fabbriche hanno subito consistenti modifiche.

L’ubicazione delle chiese superstiti, la loro reciproca posizione e i loro rapporti con i vicini corsi d’acqua offrono comunque – sottolinea la Pepe – un significativo esempio del sistema di controllo del territorio e di utilizzo delle risorse adottato dai benedettini.

Queste testimonianze della presenza monastica nel territorio del Nord Gargano sono, oggi, un patrimonio di memorie in gran parte sconosciuto ai più. 

E’ necessario intervenire con urgenza, per evitarne la scomparsa. 

Nonostante sia stata dichiarata patrimonio artistico-culturale e sia tutelata dalla legge, l’abbazia di Càlena versa oggi in uno stato di abbandono e di decadenza: solo un tempestivo intervento di ristrutturazione potrebbe salvarla da un irreversibile degrado. 

La valorizzazione di questo notevole manufatto architettonico dell’agro peschiciano è importante, oltre che dal punto di vista storico-religioso, per il turismo culturale.

Come cittadini di Peschici, speriamo nell’esproprio e nel restauro dell’abbazia nella sua interezza, per rendere fruibile questo prezioso monumento a chiunque desideri visitarlo. Ci auguriamo altresì che esso possa essere inserito negli itinerari della “Francigena”, con un percorso lungo l’asse delle sue antiche pertinenze.

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