L’amicizia e il rispetto del popolo garganico: la Vigilia di Natale da Giovanna a San Marco in Lamis negli anni 50 e 60

by redazione

Nove dovevano essere le portate per il cenone della vigilia di Natale, tante quanti i mesi di gestazione della donna che mette al mondo un bambino.

Ormai il Presepe faceva dimora di emozioni e santità nella casa, semplice come nel resto del paese. Non di rado la valle si chiudeva sotto una coltre di neve. Alle finestrelle delle soffitte, sotto ai balconi, alle grondaie, stele di ghiaccio si formavano, candide, gelide, come quelle che oggi artificialmente decorano i nostri alberi di Natale. Neanche gocciolavano, furgide e fiabesche dichiaravano e proclamavano l’inverno del Gargano.

Non era certo la neve a trattenerci nell’abitazione. Poca efficacia avevano gli avvertimenti minacciosi delle mamme di rimanere a casa. Le continue ed estenuanti richieste di uscire per la ruzza che ci attanagliava, l’aveva vinta su ogni negazione. Allora non esistevano le giacche a vento, i piumini imbottiti, dopo aver depredato le oche delle loro penne.

Si indossavano cappottini abbottonati, un po’ corti o stretti, calzoni ereditati dai fratelli maggiori, calze di lana che per l’usura scendevano alle caviglie, scarpe che scivolavano meglio degli sci, avendo la suola sotto. Quelle con il rinforzo metallico a forma di mezzaluna, li ferretédde, facevano prima a svivolare sulla neve, piuttosto che camminare. Per timore del ripensamento si usciva anche senza guanti. I viottoli disegnati fra la neve spalata dai ragazzi della casa, conducevano tutti al negozietto di generi alimentari, alla chiesa, alla scuola, ai luoghi cruciali per la vita quotidiana. Un mondo completamente incantato avvolgeva di fiabesche emozioni gli infanti o gli adulti che conservavano quella poesia nel cuore. I pochi rumori arrivavano attutiti ed ovattati. L’aria esuberante di gelo, profumava di neve. Ogni parte del nostro corpo veniva accarezzata dalla situazione inusuale ma attesa. Ben presto le mani cominciavano ad assumere un bel colore rosso violaceo, le dita formicalavano. Pur di non tornare a casa ci si aiutava con quel po di aria calda che si faceva uscire dalla bocca: “ahh ahh!” La nuvoletta di vapore non lasciava traccia se non per qualche istante nell’aria. Le gote indorate dal sole l’estate, divenivano rosse scarlatte. Le labbra, evidenti nel giro disegnato dal gelo, il doppio labbro. Solo chi possedeva gli stivali di gomma, rimaneva con i piedi asciutti. Rischiava però il congelamento. Intirizziti, come le maglie appese ad asciugare ai balconi. Tutti, prima o poi si bagnavano calze e le estremità. Matteo aveva le calosce. Una vera impresa indossarle sulle scarpe. La neve con il tepore della terra o del corpo si scioglieva lentamente, penetrando inesorabilmente gli indumenti. Quando il tutto diveniva insostenibile ed insopportabile, ci si ricordava di avere una casa. Liberati da ogni capo, con la neve attaccata come fosse erba infestante, si trovava ristoro intorno al braciere con i piedi posati sope lu pedevrascere. Di solito coperto dall’asciugapanni. In ferro o di legno, era utile ad asciugare i panni ed ad evitare che i bambini cadessero con le mani sui carboni accesi. Quando terminava il compito di asciugatura, una bella coperta o pannetto fatto cucire appositamente, confluiva il calore sulle gambe. Allora, si continuava ad amoreggiare con la neve, guardando alla finestra o alla porta che dava sulla strada. Durava poco tempo. Ben presto qualche amica veniva a bussare per avere un po di compagnia, magari per adempiere ad un servizio utile alla mamma..

Durante l’ultima settimana d’avvento, in prossimità della vigilia, il paese era in movimento. I negozi si rifornivano per rispondere alle richieste.

Come per incanto si udivano suoni dolci e melodiosi venire da lontano. Ogni orecchio aguzzava l’ascolto. Quei suoni avevano una sola direzione, il cuore. Annunciavano con lo stesso candore della neve il Santo Natale. Erano le zampogne e le ciaramelle dei pastori abruzzesi.

Il popolo del Gargano li ha sempre serbato amicizia e rispetto. La loro presenza non era estranea. Arrivavano in Puglia con la transumanza delle pecore all’inizio dell’autunno, in cerca di pascoli erbosi. Vi rimanevano per tutto l’inverno. Facevano ritorno ai loro innevati monti in primavera.

Portavano nella nostra terra ogni bene necessario per vivere bene: il formaggio, la lana, la carne. Grati, nello spirito di rispetto e fratellanza, sotto Natale, giravano per i paesi indossando tipici abiti. Caratteristici non meno di quello di Babbo Natale.

Si sentiva la loro presenza udendo dolci melodie di canti natalizi. Suoni e testi familiari appresi sin dall’infanzia, come “Tu scendi dalle stelle”. L’ autore è Sant’Alfonso de’ Liguori. Grande poeta di preghiere ancora oggi consolatorie. Nato nel 1696 a Napoli. Il Santo affermava di essersi ispirato proprio alle figure degli zampognari, per scrivere questo canto, che originariamente portava il titolo di “Quanne Nascette Ninne”. Gli zampognari, non hanno mai smesso di suonarlo. La gente reagiva con meraviglia e gioia, come se il miracolo si rinnovasse ogni anno. Certe volte all’improvviso, nel silenzio dell’inverno, il loro suono vibrante, dirompeva vicino alle proprie abitazioni, nel portone di casa, sempre aperto. Non erano soli, ma in coppia. Non di rado un giovanissimo pastore li accompagnava, forse uno dei figlioli. La loro fisicità li distingueva: robusti, rubicondi, dall’aspetto gradevole. Erano i benvenuti. Indossavano la camicia di flanella, un maglione di lana grossolana, realizzato con i ferri a mano. Il pantalone di velluto comodo, di solito marrone o grigio. Lungo alla caviglia, lasciava vedere le calze di lana, uguali a quelle che realizzavano le nostre nonne lavorando i cinque ferri. Gli scarponi con le stringhe di pelle si incrociavano fino ai pantaloni, sotto alle ginocchia. Il panciotto in pelle di pecora o lana grossa. La cappa nera di panno, logora ma ancora indenne, li riparava dal gelo. Sul capo, il cappello in feltro di lana nero, con le falde corte, basse sulla fronte. Attaccata al petto la zampogna, composta da un sacco di pelle intera di pecora o di capra. Veniva rienpita d’aria per poi convogliarla alle quattro o cinque canne. Due emettevano sempre la stessa nota, le altre il canto scelto.

Erano gli stessi pastori a realizzarle nelle lunghe ore trascorse con i loro animali.

Conoscevano bene le note. Credo le imparassero durante la vita pastorale. Numerosi mestieri, legati alla vita agricola, avevano tradizione di artigianato. I potatori ed i pastori del Gargano sapevano creare lu scannele con il legno d’ulivo. Aveva una base triancolare spessa, lavorata con l’accetta, come li tre zengune sotte. La furlizza, uno sgabello quadrato, realizzato incastonando rami robusti di ferula.Era leggero e comodo, gradito anche dai bambini. Sapevano intrecciare cesti con rametti flessuosi degli alberi che potavano durante l’inverno. Si dilettavano ad incidere flauti di canne, castagnole per ballare la tarantella, lu zichetebbù per accompagnare i canti dopo aver pranzato in compagnia o nei giorni di festa, soprattutto nelle masserie. Cucchiai, forchettoni, altri utensili per la cucina. I ragazzi che li aiutavano, quelli che avevano talento, man mano imparavano, fino a diventare maestri.

Matteo il sammarchese, dopo aver radunato la famiglia all’ascolto non mancava di offrire un buon bicchiere di vino rosso, quello che vendeva suo padre nella cantina del paese, sotto il porticato della piazzetta. Si rifornivano a Canosa di Puglia. Prima dei camion caricavano le botti con il traino tirato dai cavalli o dai muli.

Sebbene il freddo fosse tanto, la gente era organizzata per meglio vivere la la tradizione della vigilia del Natale. Tutti aspettavano la nascita del Redentore. Sentimento che si rinnovava come se i millenni non fossero trascorsi. Le donne ed i bambini della catechesi per la prima comunione, si recavano in chiesa per le preghiere del tempo d’Avvento. Si tornava a casa profumati d’incenso, canticchiando ritornelli inneggianti alla Madonna ed al Divin Bambinello: Serena è la notte di gelo,Tu scendi dalle stelle, Astro del ciel…

Il Natale è sempre stata una festa di famiglia. Erano le preferite fra la gente della valle lo Starale.

Noto il proverbio: Natale con i tuoi, Pasqua con chi vuoi. In tante famiglie i papà emigrati in Germania, in Belgio, in Lussemburgo facevano ritorno per ricongiungersi con i propri affetti. Persino il vicinato sentiva la gioia del ricongiungimento. Non rimanevano dietro le porte a guardare, ma uscivano per salutare e dire due parole. Le consorti che per mesi avevano condotto vita sobria, si trovavano indaffarate. Figli che guardavano il proprio padre con solennità. Cercavano di conoscerlo, di recuperare un po’ di affetto perduto, in solo pochi giorni. Si moltiplicavano le visite dei parenti e dei compari. Luogo d’incontro con gli amici, durante l’inverno, era “La strada lu Ponte, ammeze allu corse”, lu bar, ammeze allu chiane.

Luogo precipuo di ritrovo cordiale e di festa rimane la tavola della propria casa o dei genitori, fratelli e sorelle, cugini e compari. Anche il Signore ha scelto di incontrare i suoi figli alla Mensa della Comunione dove si spezza il pane ed il vino, per condividerlo nella casa del Cristo Risorto. Il messaggio dell’Avvento è sempre stato quello di prepararsi all’accoglienza, di disporsi alla nascita del Bambinello, il Redentore portatore della Lieta Novella.

Siamo chiamati a prepararci spiritualmente ed anche materialmente per la festa intorno alla tavola accogliente.

San Marco ha sempre dato importanza alle relazioni sociali, senza forzature, con naturalezza. Rispettosa di regole dettate dalle usanze, cultura e tradizioni.

Non doveva mancare proprio nulla per la cena che si componeva di numerose portate. Non era facile dato la povertà dilagante. Era un’economia per lo più agricola, pastorale, artigianale. Le famiglie ricche non assumevano comportamenti o usanze diverse.

Il mezzogiorno della vigilia si faceva una merenda per così dire frugale. Nei giorni precedenti le donne avevano trumbate lu pane, ammassato la farina con il lievito madre per infornare panette di pane di sette-otto chili. In occasione della vigilia, insieme al pane, al forno avevano portato a cuocere pizze diverse: lu cavecione, la pizza cu la recotta, cu li sfringe, cu li pemmedore, cu li patane, la pizza sfugliata. Chi aveva il forno nella propria masseria o in quella del padrone, le preparava al mattino del 24 dicembre. S’impastava la pasta ben lievitata e particolarmente morbida per friggere a mezzogiorno li screppèdde. Mangiate calde e morbide, condite facendovi filare sopra il miele, erano gustosissime. Altrettano buone scondite, soprattutto se calde. Mai come alla vigilia di Natale, li sertaneje friggevano, chi sopra il pibigas, chi sulla stufa a legna, chi nel camino o la furnacetta tonda.

Da qualche giorno avevano fritto le splendide rose di pasta ricca di uova, li crustele e li cavezuncedde. Giovannina aveva introdotto nuove ricette, oltre alli crustele preparva le cartellate. Li cavezuncedde li riempiva di mostrarda e non di farina di ceci. Entrambi passati nel mosto cotto di vino o di fichi, in bollitura. Alcune signore vi aggiungevano i confettini per renderli più belli.

Le mandorle crescono dolci e carnose sul Gargano. Pertanto li mennele atterrate e le mandorle pralinate non potevano che essere ottime. Li pastarelle cu li mennele, i mostaccioli con il mosto cotto, delizie che venivano servite al momento del dolce.

Alcune donne preparavano persino i prupati. Dolce nuziale tipito sammarchese. Un dolce abbraccio a formare la ciambella.

Pesava anche più di un chilo. Nell’impasto è il lievito madre che si attiva, come per il pane. Viene aggiunto ogni ben di Dio, a cominciare dal miele, lo zucchero, le uova, il cioccolato, la cannella, i chiodi di garofano, la buccia d’arancio. Manca qualsiasi grasso: nè olio, né strutto, né burro.

E’ una giornata lunga ed impegnativa quella della vigilia di Natale. Già da tempo il padrone di casa ha scelto e messo da parte nu belle ceppone di mandorlo o di olivo. Arderà per tutto il giorno, farà compagnia anche la notte. Nella casa il calore parlerà di festa fino ad ora tarda. Infatti dopo il cenone ci si recava in chiesa per partecipare alla Messa di Natale, quella della mezzanotte.

Sebbene tutti i preparativi dolciari erano affidati a Giovannina, la preparazione dei liquori toccava a Matteo.

Acquistava le essenze e l’alcol. La cucina diventava angolo d’alchimia. Pentole e pentoline, imbuto, miscugli, bottiglie riciclate belle e pulite, pronte per accogliere il coloratissimo liquore. Ne faceva avanzare per riempire le graziose fiaschette. Il liquore rosso allo cherry, il verde alla menta, il giallo simile alla Strega.

Li donava ai figlioli. Era dolce e profumato. Lo sorseggiavano gustando la prelibata bevanda, concessa solo in tale occasione. Sentivano un certo benessere oltre quello per il dolce ed agognato zucchero.

Nel rispetto all’ incarnazione del Cristo, non si consumava carne il giorno della vigilia. La cena, infatti, era a base di pesce: anguille, capitoni e baccalà. Lu manfreduniese si riforniva dai pescatori del lago di Lesina e Varano. Una prelibatezza del cenone. Il baccalà veniva cucinato in tanti modi. Si univa all’anguilla cotto con il cavolfiore. Non mancava la brace per farli arrostiti. Anche fritti, conditi con il succo di limone. Persino la frutta veniva servita a tavola, a fine pranzo, prima dei dolci. Arance o mandarini. Ogni pasto era considerata una portata, come il fresco finocchio tagliato a spicchi, servito in un piatto posto al centro del tavolo.

Dopo la messa ed il suono delle campane, nei presepi si posava nella mangiatoia il Bambinello, tenuto fino ad allora in un tiretto o in una tazza nella cristalliera. La speranza che il suo splendore, narrato nel Protovangelo, illuminasse la vita di ogni cristiano. Al ritorno nell’accogliente e calda stanza, si riprendeva a giocare, magari spezzando un dolcetto, bevendo un liquorino.

La cena aveva un andamento solenne. L’arrivo dei parenti creava nell’immediato allegria e festa. La sorella di Matteo, Emma di natura era allegra. Michele, il marito, paziente e sorridente, annuiva per mai recarle dispiacere. Pertanto il suo arrivo onorava la festa. Aveva una sola figlia che coccolava gli zii chiamandoli di continuo “zizi e zia Giuuannina”. Frequentava il liceo classico, come tanti giovani del paese. Era il segno dei tempi che avrebbero ben presto portato cambiamenti. Essendo la nipote preferita, per gli zii, renderla felice era normale, come per i propri figli. La cucina era piena di cibi cotti squisitamente. Nonostante le mille difficoltà, la mancanza di comodità, Giovanna, come le altre donne del paese, preparava da mangiare a regola d’arte.

Anna Piano, narratrice e artista

La tavola apparecchiata, il ceppo fumante nella stufa a legna, il braciere colmo di carboni, faceva di quella casa un nido caldo di festa e d’amore. Le luci accese nelle cucine. Per le strade sempre qualcuno passava.

Prima di consumare ogni portata, si donava al Bambinello la prima forchettata lasciandola cadere nel fuoco o sulla brace del braciere. Il presepe illuminato dalla lampadina, più grande del Gesù Bambino, caratterizzava la serata con la sua costante catechesi. Man mano la nottata volgeva al termine. Le mamme dovevano riposare, la mattina a seguire era il santo giorno di Natale. Matteo desiderava la pasta asciutta. Il brodo con la carne del tacchino lo preferiva il giorno di Santo Stefano. Giovannina impastava la semola per i tagliolini. Quando impiattava, sotto metteva il formaggio, sopra i tagliolini, un’altra spolverata di formaggio e poi il brodo bollente. Tante donne temevano l’avvicinarsi delle feste per il troppo e faticoso lavoro. Era la vita d’allora, in parte anche di oggi. I genitori tenevano a conservare le tradizioni, a creare felicità per i figlioli, a dare senso alla Famiglia.

San Marco in Lamis, 22 dicembre 2022.

Anna Piano d.ssa in teologia e giurisprudenza

la foto in copertina è della raccolta dela pagina social Le bellezze del Gargano

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