L’incendio di Palazzo Pinto di Ischitella raccontato da Padre Michelangelo Manicone nella “Fisica Appula”

by Teresa Rauzino

Oggi ad Ischitella la traccia più evidente del principato dei Pinto è il Palazzo Ventrella. Sito nel piano, alla sommità di un alto colle, era stato edificato nel 1714 sui ruderi di un antico castello, crollato al suolo in seguito al “furibondo tremuoto” del 1640. Il palazzo Pinto, anche se incompiuto (doveva avere quattro piani), secondo Michelangelo Manicone era “il più bello e magnifico edificio del Monte Gargano. E a suo giudizio, gli edifici sono stati, e saranno sempre, corrispondenti alla “elevatezza” di coloro che li fecero e li fanno edificare.  Nonostante le critiche precedenti, onore ai Pinto, dunque!

La sua accurata descrizione ci permette di visualizzare com’era il palazzo: un perfetto rettangolo, con un unico cortile della stessa forma geometrica, due scalinate di accesso, una ad Est, l’altra ad Ovest, ambedue comode, larghe, belle. Delle quattro facciate quella verso il Nord è la principale. Essa è antica, bella, graziosa; ha un portale sontuosamente arricchito di ornamenti delicati. Il portone è decorato da una log­gia ben lunga, sontuosa, leggiadra. Il palazzo è “comodo” ed ha tre piani: quello terreno ospita i “familiari di servizio”; sugli altri due sono gli appartamenti della famiglia del Principe”.

Sempre ne La Fisica Appula, Michelangelo Manicone ci fa rivivere i momenti convulsi del terribile incendio che, nella notte del 20 aprile 1804, “divorò” il palazzo dei Pinto: le fiamme, altissime, cominciarono ad alzarsi dal terzo piano: “Sembra questo una fornace accesa. Dalle finestre abbrustite sbucano inquiete fiamme stridenti, fino al cielo. Lo spavento dilaga tra tutti gli abitanti. Ogni casa echeggia di disperati urli. Scrosciano i saldi tetti, cadono con immenso fracasso sui lastricati; e le soffitte del secondo piano crollano, e divengon pascolo delle fiamme divoratrici. Il palazzo arso e divorato al di dentro, vomita al di fuori un fuoco spaventevole. Temono gl’Ischitellani, che le fiamme portino l’incendio, la strage, e la desolazione nelle case vicine, e quindi in tutto il Paese. Ai pianti di tutti si commuove il zelante Ar­ciprete Domenico Montanaro, il quale accorre in Chiesa, espone il Santissimo Sagramento dell’Altare, e lo conduce in processione sulla piazza della facciata principale, accompagnato dalle lagrime di tutti. Fa la santa benedizione. Oh miracolo grande! Ormai lo Scirocco minacciava di portar l’incendio nel paese, e di ridurlo al nulla, quando, destasi un vento da ponente; le fiamme vengon quindi trasportate verso levante, così il fuoco non s’appiglia alle case, Ischitella non è ridotto ad un mucchio di sassi, ed il palazzo arso al di dentro, e divenuto inabitabile ne’piani superiori, offre alla vista finestre annerate, solitudine mesta, rovine luttuose”.

Il fuoco era partito da una trave, posta all’interno di un camino del secondo piano: il massaro del Principe stava bruciando nel focolare delle “fiscelle di cacio”; le faville avevano attaccato la trave e l’incendio si era propagato nel corrispondente soffitto.

Michelangelo Manicone racconta un gustoso aneddoto, relativo all’incendio.

Il Palazzo Pinto “orrendamente avvampava”, e Don Rinaldo Netti della Padula, Agente del Principe, “placidamente” dormiva. Molta gente, accorsa nell’appartamento del secondo piano, entrò nella sua camera, gridando: “Signor Agente, fuggi, scappa”. Rinaldo, svegliatosi di soprassalto a queste voci, credendo fossero i ladri, li pregò di non ucciderlo, e di prendersi i denari. “Che denari, e denari – gli risposero- presto, fuggi, se non vuoi esser divorato dalle fiamme”. Ciò udendo Rinaldo si confuse, restò senza voce, e quasi senza respiro. Lo stato confusionale dell’Agente del Principe suscitò compassione in ogni cuore; egli fu sollecitamente trasportato nella vicina casa de’benefici Signori Ventrella, e si salvò.

Secondo Manicone, il “tenero e virtuoso” Don Rinaldo, suo grande amico, deve la salvezza della propria vita agli “umani” Ischitellani; il salvataggio del denaro, delle interessanti scritture del Principe, e della sua “roba” lo deve, invece, al coraggio di un’intraprendente donzella: Fiorenza di Lella, sua fedelissima servetta. Svegliata di soprassalto, nella sua casa, dalle grida del popolo, quando sentì che il Palazzo Pinto s’incendiava, si mise subito camicia, gonnella, e corpettino e “volò” lì. Giunta al portone, sollecitò tutti a salvare “la roba”. Quindi, “accompagnata da molte persone, senza temere né fuoco, né crollanti soffitti, entrò impavidamente nella camera del suo padrone, prese il baule, le carte, la roba; salvò tutto, facendo trasportare tutte le cose recuperate a casa sua. Detto fatto, raggiunse il suo padrone. Questi vedendola, le chiese:

“Fiorenza, che sarà del baule, in cui eravi il denaro del Principe?”.

–  E’in casa mia – rispose Fiorenza.

–  E delle carte che n’è?

–  Sono pure in casa mia.

–  E quel denaro, che stava nel tiratojo di quel tavolino?

–  L’ho in petto.

–  E l’orologio mio?

–  L’ho in saccoccia.

A tali parole Rinaldo si rincuorò, benedisse il Cielo, e ringraziò Fiorenza. Per Michelangelo Manicone, questa intraprendente donzella ischitellana, che diede prova di tanto coraggio, fu una vera e propria eroina, onore del gentil sesso. Da meritare, senza ombra di dubbio, un posto “distinto” nelle Novelle Morali del Soave.

L’immortalità gliel’ha invece conferita proprio lui, l’umile fraticello illuminista di Vico del Gargano, inserendo l’episodio nel suo indiscusso capolavoro: la sorprendente, eclettica Fisica Appula.

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