Napoli Milionaria: la guerra, la borsa nera e la nottata che non è passata

by Germana Zappatore

Scritta nel 1945 “tutta d’un fiato come un lungo articolo sulla guerra e sulle sue deleterie conseguenze”[1], Napoli milionaria mette a confronto due mondi: quello umano precedente al secondo conflitto mondiale e quello postbellico freddo, calcolatore ed egoista. Un dualismo rappresentato dai due protagonisti ed evidente fin dalle prime battute della commedia.

L’azione, infatti, si svolge nel “vascio” di proprietà di donna Amalia Jovine. Gennaro, infatti, è il capo di casa solo per l’anagrafe: egli non appartiene di fatto all’ambiente che lo circonda perché ha “il volto chiaro dell’uomo profondamente onesto”, è tornato stunato dal primo conflitto mondiale, è diventato fesso come lo canzona la figlia Rituccia. Insomma, appartiene a “n’ata epoca” contrariamente ad Amalia che “ha un carattere decisivo”, è diventata “avida negli affari, dura di cuore” e vive dei piccoli ricatti legati alla borsa nera. Gennaro è la coscienza che tutti vogliono mettere a tacere, e difatti l’uomo dorme isolato in una “cameretta di fortuna creata nel tramezzo”.

Ma pur non avendo (ancora) la forza e il coraggio di cambiare la situazione (anzi, vi si adegua come quando si finge morto nel suo letto fra ceri accesi e vicini in preghiera per evitare che la polizia perquisisca il letto sotto il quale vi è nascosta una grossa quantità di cibo), è l’unico che si rende conto della disgregazione verso la quale sta andando la sua famiglia (e l’Italia del secondo dopoguerra). Il suo refrain “’a guerra nun è fernuta” scaraventa in faccia a tutti una tremenda verità: la vera guerra è quella in atto dentro ognuno di noi, nella coscienza di ogni singolo uomo. Lui è l’unico che vede chiaramente che la sua famiglia ha subito colpi più duri dalla liberazione che ha portato Maria Rosaria ad essere sedotta e abbandonata che dai bombardamenti. Gennaro sa bene che ha recato più danni l’improvvisa ricchezza a causa della quale Amalia ha perso la testa e ha smesso di “fa’ ‘a mamma” rispetto alla miseria delle sere in cui si sedevano “tuttu quante attuorno ‘a tavula”. Dallo sfacelo non si è salvato neppure il figlio Amedeo che si è dato al furto di pneumatici con Peppe ‘o Cricco.

La famiglia Jovine, dunque, va ricostruita come l’Italia del dopoguerra e spetta a Gennaro assumersi una tale responsabilità. Nel terzo atto Gennaro, infatti, non si limita più a contemplare la catastrofe che ha colpito la famiglia, ma tenta di attuare una trasformazione: infrange la barriera della solitudine che ha caratterizzato i primi due atti e finalmente si prende le sue responsabilità di marito e di padre (si reca al capezzale della figlia Rituccia mentre gli altri banchettano, avverte il figlio che sta andando a compiere un furto con gli amici, offre il suo sostegno alla figlia maggiore incinta e abbandonata) e decide ciò che è più giusto: “deve passare la nottata”.

Gennaro Iovine, per certi aspetti, è un personaggio molto simile a Luca Cupiello, ma allo stesso tempo va oltre segnando una crescita e il passaggio dal pari al dispari. Entrambi sono incompresi dalle rispettive famiglie e giudicati degli inetti, soffrono degli stessi mali e hanno le stesse aspirazioni poiché credono negli stessi valori. Ma Gennaro, contrariamente a Luca, ha passato il limite che separa il suo microcosmo dal mondo grande, è stato catapultato fuori dal vico e dal vascio, ha attraversato l’Italia sconvolta dai bombardamenti. Questa esperienza l’ha portato ad un grado di maturazione interiore assente in Luca ed evidente nel differente modo di affrontare i drammi della vita.

Gennaro, quindi, a differenza di Luca, non cerca rifugio in un mondo ideale e non rimane annientato. Per la prima volta un personaggio eduardiano che assiste allo sfacelo morale degli altri non solo non è coinvolto, ma addirittura trova la forza di contrapporvi un atteggiamento positivo.

Con Napoli milionaria il teatro di Eduardo abbandona l’osservazione dell’ambiente familiare (che pure è ancora ravvisabile nel primo atto) per lasciare il posto alla rappresentazione della realtà storica, a quello che lui stesso (durante una rappresentazione a Roma nell’immediato dopoguerra) definì “il mio nuovo teatro”. Un teatro che, complice anche l’abbandono della compagnia da parte di Peppino (quello dalla vena “prepotentemente comica” e per il quale Eduardo si sentiva in obbligo e in dovere di scrivere dei ruoli) diviene indagatore perché racconta la verità così com’è e non come dovrebbe essere e perché denuncia il falso per entrare nella disperazione degli avvenimenti umani e tingerla di speranza.


[1] Intervista rilasciata a Sergio Lori su La Stampa del 5 aprile 1981.

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