Partenope e il mito della città ebbra di luce e folle di colori. Napoli nasce dall’amore

by Michela Conoscitore

Napoli nasce dall’amore. I numerosi miti di fondazione della città sono tutti accomunati da questa imprescindibile caratteristica, che si trasforma in passione prorompente e ha influenzato, nei secoli, il temperamento del suo popolo.

Il primo nucleo insediativo di Neapolis, città greca, è stato individuato tra Monte Echia, a Pizzofalcone, fin giù scendendo al mare dove si staglia il profilo maestoso di Castel Dell’Ovo, sorto sull’antico isolotto di Megaride. Ed è proprio qui che si ambienta la prima delle leggende che avvolgono nelle nebbie millenarie la nascita della città. Vicino Positano si trova un piccolo arcipelago chiamato Li Galli. In antichità, tuttavia, queste isole erano denominate Scogli delle Sirene, in greco Sirenussai. Qui vivevano le Sirene, creature mitologiche, figlie del fiume Acheloo e della musa della tragedia, Melpomene. Compagne di giochi di Proserpina, figlia di Cerere la dea dell’abbondanza, quando la giovane fu rapita dal dio degli Inferi, Plutone, Cerere travolta dal dolore si vendicò sulle tre sorelle, Ligea, Leucosia e Partenope, trasformando le loro gambe flessuose in zampe di uccello.

Le tre sorelle furono condannate dalla dea perché non erano state in grado di proteggere l’illustre amica, e confinate a Sirenussai vissero lì, ammaliando i marinai con il loro melodioso canto, per poi divorarli selvaggiamente. Cerere, però, aggiunse al loro castigo un ulteriore punizione: se non fossero riuscite ad attirare i marinai di passaggio, si sarebbero dovute uccidere.

Quando giunse Ulisse, come racconta Omero nell’Odissea, l’eroe era stato messo in guardia dalla maga Circe sul sortilegio delle Sirene; così quando gli achei arrivarono nei pressi di Sirenussai, l’unico ad ascoltare il loro canto letale fu Ulisse, legato all’albero maestro della nave. I compagni, ai remi, si erano tappati le orecchie per evitare l’incantesimo delle creature soprannaturali.

Ligea, Leucosia e Partenope si avvicinarono alla nave, cantando inutilmente e cercando di attirare a loro Ulisse e i suoi uomini. Qualcosa accadde a Partenope, quando incrociò lo sguardo di Ulisse: se ne innamorò perdutamente. Però la nave proseguì sulla sua rotta indenne al sortilegio, così le Sirene si abbandonarono al proprio destino: si lanciarono dalle loro isole, il corpo senza vita di Ligea fu trasportato dalle correnti marine fino in Calabria; quello di Leucosia si depositò a Paestum. Mentre Partenope, affranta dall’amore non corrisposto per Ulisse, si gettò dal picco più alto di Sirenussai, e arrivò proprio a Megaride. Dei pescatori la trovarono, e iniziarono a venerare la sirena come una dea. Nacque il culto di Partenope, alla quale fu consacrata la città che lì aveva, da poco, visto la luce, l’odierna Napoli.

Il cantante Aurelio Fierro ha affermato che è dal canto d’amore di Partenope per Ulisse che ebbe origine la canzone napoletana. Alla sirena vergine è legata anche l’origine di uno dei dolci napoletani più celebri, la pastiera: si narra che la Sirena, in primavera, amando profondamente la città e il suo popolo che la venerava, risorgesse dalle acque del Tirreno. Gli antichi napoletani, per onorarla, le facevano dono ogni anno di grano, ricotta, uova, miele e fiori d’arancio. La sirena, grata, accettava quei doni, li portava con sé sull’Olimpo e, con tutti gli altri dei, davano vita alla pastiera, dolce tipico partenopeo di Pasqua, simbolo di rinascita e vita nuova.

Il secondo mito fondativo fu ripreso nell’Ottocento dalla scrittrice e giornalista Matilde Serao nel suo libro Leggende Napoletane: racconta la storia d’amore di Partenope e Cimone, due giovani greci osteggiati nel loro amore dal padre di lei, che aveva promesso la figlia ad un altro uomo. La coppia non si arrese al volere del padre di Partenope, così prepararono la fuga. Decisero di lasciare la loro terra per andare a vivere altrove. Giunsero in Campania, in un golfo accogliente e fertile; attraccarono e fondarono un piccolo insediamento. Partenope e Cimone ebbero dodici figli, gli antenati del popolo napoletano, e la piccola città per ringraziare la fondatrice, adottò il suo nome. Una società dalla fisionomia profondamente matriarcale, e Serao afferma nel suo libro che Partenope non è morta, vive ancora oggi in mezzo al suo popolo. Chissà chi è, chissà dove si cela:

Parthenope non è morta, Parthenope non ha tomba, Ella vive, splendida giovane e bella, da cinquemila anni; corre sui poggi, sulla spiaggia. È lei che rende la nostra città ebbra di luce e folle di colori, è lei che fa brillare le stelle nelle notti serene, quando vediamo comparire un’ombra bianca allacciata ad un’altra ombra, è lei col suo amante, quando sentiamo nell’aria un suono di parole innamorate è la sua voce che le pronunzia, quando un rumore di baci indistinto, sommesso, ci fa trasalire, sono i baci suoi, quando un fruscio di abiti ci fa fremere è il suo peplo che striscia sull’arena, è lei che fa contorcere di passione, languire ed impallidire d’amore la città. Parthenope, la vergine, la donna, non muore, non muore, non ha tomba, è immortale. È l’amore.

Matilde Serao

L’ultimo mito fondativo riguardante la città di Napoli è, forse, quello più romantico per quanto anch’esso sia ammantato di tragicità. Si diffuse sempre nell’Ottocento, forse per affascinare maggiormente i viaggiatori del Grand Tour: ritroviamo la sirena Partenope questa volta, però, innamorata del centauro Vesuvio. Con la complicità di Cupido, la coppia fu travolta da un sentimento travolgente che li portò all’apice della felicità. Giove, però, innamorato della sirena e vedendosi non corrisposto punì i due innamorati: il re degli dei trasformò il centauro in un vulcano, condannando Partenope a vederlo tutti i giorni ma senza poterlo amare. La sirena, distrutta dal dolore, si uccise. Il suo corpo, anche in questa leggenda, arrivò all’isolotto di Megaride dove, col tempo, assunse la conformazione della città di Napoli, ricongiungendosi in un abbraccio eterno con Vesuvio.

A Palazzo San Giacomo è custodita la testa di Partenope, unica testimonianza di un’antica statua che prima era posizionata a Piazza Mercato, nei pressi di una delle vie storiche di Napoli, via dell’Anticaglia. La testa di Partenope fu venerata fino a qualche secolo fa dai napoletani, e nel periodo della repubblica giacobina, il reperto assunse il nome di Marianna, richiamando il legame con la Francia. Infatti, la testa conservata nel palazzo del Comune è denominata Marianna a capa e’ Napule.

L’esistenza di Partenope rimarrà, per sempre, avvolta nella leggenda. Molti, ancora oggi, cercano la sua sepoltura da alcuni individuata sotto le fondamenta della chiesa di Santa Lucia, sulla collina di Sant’Aniello, altri invece pensano che le sue spoglie immortali siano custodite nei sotterranei di Castel Dell’Ovo. Comunque Matilde Serao aveva ragione, Partenope non morirà mai.

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