Sono andati via anche i nuovi re, è venuta la repubblica, e che n’è del vecchio Gargano?

by redazione
baia di sfinale

La generazione a cui appartengo ha visto gli albori dell’elettoralismo politico nel Gargano. C’era nell’aria qualche velleità di repubblicanesimo alla Imbriani, riecheggiata dalla San Severo di Fraccacreta e di Masselli, dove la destra si raccoglieva intorno alla Banda bianca e la sinistra intorno alla celebrata Banda rossa, poi emigrata in blocco: il paese ci guadagnava almeno due ottimi corpi musicali, le liti erano flautate.

Ma i candidati ministeriali avevano, abitualmente, maggiore fortuna, sostenuti dai capi-elettori, i signori del luogo, a cui la maggioranza si rimetteva senza dare peso a questa sorta di faccende. Nella mia casa paterna, vecchio focolare di agricoltori abituati a prendere all’alba la via della campagna, capitavano eccezionalmente personaggi elettorali di vario calibro creando trambusto in quelle povere camere. Ricordo tra gli altri, Giorgio Arcoleo, sapido e quasi cieco, che non so perché si spingesse fin lassù. Egli era anche l’avvocato di famiglia, si accompagnava a un giovane corregionale, l’on. Cocuzza al quale diceva “Cocuzza, bada bene, in italiano sei zucca”.

Il deputato, da ultimo, era un calabrese trapiantato a Napoli e imposto attraverso il prefetto di Foggia, si chiamava Vollaro da Lieto ed aveva un tremendo tic che gli muoveva la mezzauba sul cranio pelato fino a farla cadere sul naso. Più famigliare consideravamo il conte Giusso, nonno del mio illustre amico Lorenzo e appoggiato nel collegio di Manfredonia Monte Sant’Angelo da nostri parenti molto inclini alla politica. Il conte Giusso almeno si dimostrava uomo pratico: alla viglia del voto mandava casse di cappelli da distribuire agli elettori, così che un bel giorno si vedeva in giro un sacco di gente con lo stesso copricapo nuovo. Ciò nonostante il conte ebbe vita dura e credo che infine riuscissero a scalzarlo. Gli aveva portato disgrazia, non lo si immaginerebbe, l’imperatore di Germania. L’on. Giusso si era messo in capo di persuaderlo a visitare il Gargano e andare in pellegrinaggio alla grotta di San Michele . Quando Guglielmo II si mosse fu la volta che arrivò in Italia Monsieur Loubet e dinnanzi a un così evidentemente sconvolgimento della Triplice, l’Imperatore non penso più a noi e andò a chiudersi sdegnato nella sua villa di Corfù. I miei parenti, che pare non fossero designati a ospitarlo, si dimostrarono inconsolabili e se la presero col deputato come se avesse venduto fumo.

Doveva arrivare fatalmente anche il socialismo, e lo vedemmo sotto gli aspetti di un proselitismo sporadico, assai stentato, borghese e artigiano piuttosto che contadino. Si annunziò a noi nei primissimi anni del secolo, portato all’inizio da un giovane farmacista che ora vive e prospera e credo pensi  ad altro, negli Stati Uniti; ma più esattamente lo suo autore fu, come ben sappiamo, un volontario di Ricciotti Garibaldi che si era battuto a Domokos con grande valore avavea raccolto nelle braccia Aurelio Fratti colpito a morte.

Egli era, per legge di contrasto, figliolo unico del maggiore, del più potente conservatore della regione. Quell’avvocatino dalla barba bionda parlava con eloquenza suggestiva, con impeto e immaginazione; esercitava un grande fascino anche sui refrattari, apriva grandi brecce nei ceti signorili. Eppure nonostante l’avvento dei partiti, le competizioni garganiche non vollero mai spersonalizzasi, fecero sempre capo a un nome, a una persona degna; il partito socialista si chiamò il partito di Fioritto, e Mimì Fioritto, il nostro caro, fraterno Mimì fu quello che è ancora oggi, uomo di tutti, amico di ognuno. Contro il partito di Fioritto c’era il partito di un altro gentiluomo sereno, amabile e radicale per giunta, il partito di Zaccagnino.

Le elezioni democratiche

Non bastavano? Ma il mio vecchio, vecchissimo prozio Francescantonio, gigante al punto tale da riempire con la sua statura il portone di casa, scuoteva il capo quando, nei suoi ultimi giorni, sentiva parlare di queste cose. Ai suoi tempi la vicenda era anche più semplice e chiara. Egli era stato sindaco, meglio si diceva capo-eletto, finché erano durati i Borboni, ma non aveva ritegno a raccontarmi, con mio immenso sollazzo, come avvenivano quelle nomine e come il capo eletto in realtà non fosse eletto da nessun altro che da se stesso. Le elezioni erano quanto di più democratico si potesse immaginare. Arrivava in paese il delegato governativo e faceva convocare dal banditore il popolo in piazza. Accorrevano tutti, compresi i bambini lattanti: altro che suffragio universale! Il delegato saliva su un tavolo e con piglio teatrale chiedeva: “Voce di Dio voce di popolo: chi volete per sindaco?”.

Ognuno poteva liberamente gridare il nome che gli era gradito ma, poiché sarebbe stato proclamato quello prevalente nel coro, il mio egregio prozio trovava agevole assoldare alcuni vocioni della contrada, bassi e baritoni insuperabili, che, in gruppi strategicamente appostati, gridavano con tutto il fiato “Don Francescantonio! Don Francescantonio!” Il delegato a un certo punto troncava con un gesto risoluto il formidabile urlo addomesticato, e don Francescantonio era costantemente rieletto.

Senonché anche allora non era tutto un idillio; non scorreva tutto liscio e indisturbato per la dittatura delle voci grosse. C’era in ballo la questione del regime e dell’unità. Nella mia vecchia casa come in tutte le case più esposte, si poteva anticipare assai a proposito il distico cavallottiano “Nelle case autocratiche c’è l’uso prudenziale – ch’uno della famiglia si atteggia  liberale”.

Così accanto al sindaco borbonico e sanfedista, figurava un altro zio che portava il pizzo in odio alla dinastia regnante sulle Due Sicile ed era riuscito a prendere contatti con la Giovane Italia, particolarmente col Mordini: si chiamava Don Vincenzo quest’altro personaggio, soprannominato per la sua irrequietudine “polvere di Trajèst” cioè la violenta polvere da caccia che arrivava da Trieste. Don Vincenzo si mescolò addirittura con la storia, fece parte della commissione partenopea che salì alla Reggia per ottenere la costituzione, poi, sopravvenuta l’ondata reazionaria e condannato alla pena capitale, dovette scappare da Napoli dove studiava legge e rifugiarsi a Vienne, Trieste, Venezia e Milano fino al momento di far ritorno in paese dopo il 1860. Caduti i Borboni, egli prese il posto del fratello cingendo la sindacale sciarpa sabauda: il giuoco delle parti era riuscito.

I briganti

Ma l’avventura di Murat e tutto il risorgimento, in fondo, sarebbero passati senza dramma nella nostra isola, che per sua ventura era ancora tale, se non fosse sopravvenuto il brigantaggio con vessillo legittimista e poi il brigantaggio comune, fenomeno grosso di criminalità collettiva che dominò la vita dell’intera regione, specialmente nelle località dell’interno, per più di un ventennio, tra il 1860 e il 1880. I racconti che sentivamo da bambini non riguardavano Curtatone e Montanara né San Martino e Solferino, fatti contemplati solo nelle letture scolastiche, riguardavano le terrificanti imprese dei banditi, l’incubo angoscioso sotto il quale le nostre famiglie erano rimaste per così lungo tempo.

Mio padre aveva visto esaurirsi la minaccia con la cattura e la soppressione di tutti i popolarissimi assassini e grassatori che infestavano le contrada boscose, dalla foresta Umbra a Silzi, da Mattinata a Macchia, da Cagnano a Carpino ma egli tremava ancora raccontandomi che un giorno, adolescente era passato per la piazza del paese tenuto a mano dal nonno e questi, improvvisamente, concitatamente gli aveva ingiunto “Non guardare a destra, voltati dall’altra parte”. A destra, da un lampione penzolava impiccato il capo della banda, e sotto di lui, seduti a tavola al cospetto della folla, i suoi famigliari mangiavano voracemente, oscenamente, maccheroni al ragù e bevevano fiasche di vino per ostentare che lo avevano rinnegato. Così finì la dominazione dei banditi nella nostra terra e si affermò il prestigio del pennacchio napoleonico sul regio tricorno dei carabinieri.

Andarono via i Borboni, vennero i Savoia, o come dicevano gli inconsolabili i Piemontesi; ora sono andati via anche i nuovi re, è venuta la repubblica, e che n’è del vecchio Gargano? Tutte le volte che vi facciamo ritorno, le diversità, le mutazioni ci feriscono, ci avvelenano l’esistenza. Certo sarebbe difficile ricostruire, anche soltanto nel racconto, la vita feudale, patriarcale, paternistica di cui abbiamo potuto vedere gli ultimi guizzi nella nostra infanzia, ed è già uno sforzo notevole ritrovare nel nostro spirito quei costumi, quei modi, quelle figure, quel curioso mondo di gente fuori del tempo, bonaria, rassegnata e lenta, che parlava con lieve cadenza cantante, aspettava il destino con inguaribile scoramento e si rimetteva alla provvidenza dei Santi; buona gente abituata a praticare le forme del rispetto come un culto antico e a considerare l’autorità come l’incarnazione dell’onnipotenza.

Forse sotto la pelle, sotto le apparenze, l’organismo è cambiato assai meno che si creda; forse l’anima semplice, sorgiva, l’indole è ancora quella. Comunque, il nostro Gargano, uno dei più affascinanti paesi del mondo, non può dirsi un’isola non può considerarsi terra vergine. Bando dunque alle nostalgie infettive e mettiamoci dalla parte dei protestatori contro le inadempienze statali: sicuro, il Gargano non è più terra vergine, ma nonostante la sopraggiunta ferrovietta, le novità utili sono poche: nozze col continente, con l’Italia unitaria, non sono state ancora degnamente celebrate.

Puglia, Orizzonti Salentini Editrice, n. 2, Roma, 1949

Francesco Maratea

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