Un Luca Cupiello di fine Novecento, ovvero Cico Righi in ‘…e fuori nevica!’ di Vincenzo Salemme

by Germana Zappatore

Siccome sei mezzo scemo ti dobbiamo rinchiudere in una clinica, perché Stefano si deve sposare e non si può certo tenere in casa un povero mentecatto, tu devi andare in giro a suonare le canzoni… Mamma non c’è più che mi fa compagnia… okay, vado in clinica… Smette di nevicare? E a me che me ne importa, io so’ David Copperfield! Voi mi chiudete? Io scomparo!
Cico, ‘…e fuori nevica’, atto I

È il 1995 quando Vincenzo Salemme mette in scena ‘…e fuori nevica!’, commedia in due atti dalle atmosfere tipicamente ‘eduardiane’. E lui, Eduardo lo conosceva molto bene. Appena ventenne (siamo nel 1977) Vincenzo Salemme entra a far parte della compagnia di De Filippo per interpretare ruoli di comprimario in alcune delle sue più famose commedie: ‘Ditegli sempre di sì’, ‘Uomo e galantuomo’, ‘Non ti pago’, ‘Questi fantasmi’ solo per citare quelle conosciute anche da chi non va a teatro.

Si diceva, quindi, che Salemme conosceva Eduardo e aveva avuto la fortuna di studiare ‘dall’interno’ le dinamiche delle situazioni e dei personaggi del Maestro, soprattutto quelli dei giorni pari: vecchi sentimentali che difendono ancestrali ideali, personaggi stonati che usano il proprio essere fuori di chiave non come una maschera ma come un megafono per denunciare le ingiustizie e le ipocrisie della società. Ecco, tutto il bagaglio concettuale di Eduardo, Vincenzo Salemme lo porta con sé per aprirlo nel momento in cui crea ‘…e fuori nevica!’.

La storia è questa. I fratelli Righi (Enzo, Stefano e Cico) si rivedono dopo venti anni in occasione della lettura del testamento della madre che obbliga i tre a stare sempre insieme per poter ottenere la propria parte di eredità. Nel primo atto la vicenda è incentrata sulla descrizione dei protagonisti e del microcosmo privato e inaccessibile agli altri in cui vivono. Enzo è il musicista che ha bisogno dei soldi per saldare i debiti contratti con un allibratore e per realizzare il brano con cui vuole partecipare a Sanremo. Stefano è preso dai preparativi del matrimonio ed è vicino alla depressione per colpa della suocera che gli impedisce di avere contatti con la futura sposa. E poi c’è Cico, il fratello “che non è normale”, che “ha una forma di malattia tra l’epilessia e l’autismo” e che (secondo i fratelli!) “non ha il senso della realtà” perché “non ha capito che quello era un notaio che leggeva il testamento” e perché in pieno agosto dice che “fuori nevica”.

Ma come accade nella migliore tradizione teatrale del primo Novecento (e qui non c’è soltanto Eduardo), lo stonato della storia è in realtà colui che ha il polso della situazione, quello che in realtà ha capito tutto della vita. È lui, infatti, che smaschera il carattere disastroso della vita dei fratelli pur rappresentandolo allegramente attraverso la lente, non del tutto deformante, dei suoi occhi di eterno bambinone. È Cico che rivela a Stefano che la fidanzata gestisce una hot-line, che rivela i debiti di Enzo e che si prende gioco del linguaggio dei cosiddetti savi smontandolo e rimontandolo a proprio piacimento durante i suoi teatrini e creando le gags più esilaranti dello spettacolo.

Ma Cico non è soltanto un bambinone che “giuoca dalla mattina alla sera”. Lui è soprattutto un moderno Luca Cupiello che crede ancora nel valore della famiglia e che vorrebbe vivere per sempre con i fratelli finalmente ritrovati. E infatti è sempre lui che con parole dure (tipiche di una persona ferita e niente affatto pazza) accusa Enzo di aver abbandonato la famiglia e che a metà commedia rinfaccia ai fratelli di volersi liberare di lui mandandolo in clinica. Anche Cico, come Luca Cupiello, aspira ad “un presepe grande come il mondo”, ovvero un mondo che è inesistente e che, proprio per questo, è intelligentemente rappresentato dalla neve d’agosto che solo lui vede e nei momenti in cui riesce a coinvolgere i fratelli nei suoi giochi. Giochi che non a caso sono quelli tipici dell’età infantile, il periodo in cui era realmente felice perché la sua famiglia era unita. Si tratta, dunque, del classico candido che il mondo non riesce a riconoscere (e, quindi, ad accettare) perché non è omologabile, non è catalogabile sotto nessuna delle maschere prodotte dalla società moderna. Infatti, come spiega Stefano nel primo atto parlando di Cico, “i medici ci capiscono sempre meno… qualcuno ha anche parlato di schizofrenia… qualcun altro di paranoia… non si capisce… stanno capenno…”. Cico, quindi, è una pericolosa mina vagante che scombussola gli equilibri (in realtà già precari) delle vite dei fratelli, soprattutto quando confessa di aver dato “morfina assai” alla mamma malata terminale perché “non vuole che mamma strilla” perché “mamma è sempre stata buona e Cico vuole che ride”.

A questo punto della commedia l’impossibilità di comprendersi arriva all’apice: i linguaggi dei tre fratelli non troveranno mai un luogo di incontro perché sono chiaramente espressione di universi di valori completamente contrastanti. La storia, quindi, deve concludersi e l’unica soluzione possibile (Eduardo docet) è l’isolamento, l’eliminazione dello stonato attraverso la reclusione in manicomio.

Ma è qui che Vincenzo Salemme va oltre il suo Maestro con un epilogo che, pur lasciando attonito lo spettatore, è, a ben riflettere, l’unico lieto fine possibile perché è il trionfo del valore in cui Cico ha creduto fino alla fine, ovvero l’unione di famiglia.

CICO (siede sul divano in mezzo ai fratelli. Poi, rivolto al pubblico) Perché non ve ne andate? Non lo vedete che fuori nevica? Non c’è niente da vedere… è finito il teatrino… tornatevene a casa. Noi ce ne andiamo! (e si abbandona senza vita).

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