Una storia di eccessi. E il giorno in cui William Burroughs divenne scrittore

by Andrea Silvestri

Nel 1951 l’uragano Fox aveva divelto i banani di Portorico, risparmiato Cuba, saltato sopra la Giamaica per poi fermarsi sopra Mexico city per otto giorni, riempiendo le strade di acqua e fango, impedendo gli spostamenti.

Da otto giorni un appartamento nel sud della metropoli era occupato da otto americani; nonostante le dichiarazioni che seguirono il fattaccio, tutti erano lì per drogarsi, bere, scopare il più possibile. Erano scrittori, studenti, intellettuali.

Tra gli otto presenti c’erano William Burroughs e sua moglie, Joan Vollmer.

Si erano conosciuti a New York. Joan divideva una stanza con Edie Parker, che sarebbe diventata la prima signora Kerouac.

Nonostante sapesse dell’omosessualità di William, li univano passioni intellettuali e bisogni fisici. Insieme cominciarono a drogarsi sempre di più. Dovettero fuggire da NY a causa di alcune ricette false; furono prima in Texas (dove Joan si accorse di essere incinta), poi in una fattoria a New Orleans dove William sperava di coltivare grossi quantitativi di marijuana da spedire a Ny, con l’aiuto del “pilota folle” Neal Cassady e di Allen Ginsberg.

In verità, non c’era alcuna necessità di lavorare per i signori Burroughs: il nonno di William era il famoso inventore della macchina da scrivere, i suoi genitori coprivano ogni spesa, capriccio o problema che il loro viziato figlio, prossimo ai quaranta, continuava a compiere sin dai tempi di Harvard, dalla quale era stato espulso.

Lei, Joan, aveva già una figlia da un precedente matrimonio, ora c’era anche il biondo William jr. Più volte era stata ricoverata a forza in qualche ospedale pschiatrico, nel tentativo di fermarne la dipendenza.

A Joan piaceva la benzedrina, il nome commerciale dell’anfetamina, la droga dei beatnik. All’epoca veniva venduta per scopi medici (come broncodilatatore) in forma di inalatore. Quelli come Joan prendevano il tubo e lo spaccavano a metà, appalottolavano la carta interna imbevuta con l’anfetamia, per poi tirarla giù con del tè o del caffè.

Joan ne consumava così tanta da aver riempito ormai il pavimento della fattoria, giù a New Orleans. I bambini giocavano con i vuoti, facevano i bisogni dove volevano, lasciati liberi dalla noncuranza dei genitori. Un inizio di polio l’aveva resa claudicante, perdeva i capelli a ciocche, le braccia e le gambe erano piene di lividi per le cadute, i fiori sui suoi vestiti si stavano appassendo.

In più, beveva di brutto e litigava costantemente con William che, ogni tanto, partiva per qualche viaggio (ovviamente finanziato dai genitori) con qualche amante.

Dovettero lasciare separatamente anche la Louisiana per i soliti problemi con la polizia. Si ritrovarono in Messico.

William era tornato da tre giorni dall’Ecuador dove, insieme al suo amante Lewis Marker, era andato a cercare il mitico yagè, una pianta allucinogena usata per misterici rituali.

Joan aveva passato 48 ore in macchina a bere tequila con gli amici Lucien Carr e Allen Ginsberg, i figli abbandonati nel sedile posteriore.

Il 6 settembre 1951 erano di nuovo insieme in quella grande casa piena di stanze ed alcove, un urugano sulla testa.

William le disse: “E’ tempo di giocare a Guglielmo Tell!” Dovevano averlo già fatto altre volte. ”Metti il bicchiere in testa Joan, facciamogli vedere come spara il vecchio Lee”.

“Su, Bill, vediamo se sei ancora in grado!”Joan scollò l’ultimo goccio di tequila dal suo tumbler, per poi piazzarselo sulla testa.

Nessuno dei presenti provò a fermarli, qualcuno li incitava.

Burroughs, posizionato a circa due metri da lei, prese la mira ma sbagliò il colpo di quattro dita: verso il basso.

Accorsero tutti, da ogni stanza della casa, qualcuno prese addirittura una foto del cadavere. Joan Vollmer aveva 28 anni, ne dimostrava almeno il doppio.

Quel giorno William Burroughs divenne uno scrittore.

L’uragano stava per terminare.

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