Vincenzo Campobasso recupera il patrimonio linguistico dialettale di Rodi Garganico col suo Vocabolario “scritto come si parla”

by redazione

E’ apparso recentemente, nel giugno 2020, un saggio di cultura garganica, pubblicato a spese proprie per i tipi di Andrea Pacilli Editore, di Manfredonia, e inserito nella Collana di Ricerche Storiche. Più precisamente ha visto la luce, dopo quasi tre lustri di travaglio tra le sudate carte, Il “VOCABBOLàRJƏ DU DIALèTT RUD’JèN’ (SCRÌTT ACCόM’ C’ PARL)” (il Vocabolario del dialetto rodiano – scritto come si parla), di Vincenzo Campobasso.

Del dialetto! si fa per dire, perché l’Autore rivendica per il “rodiano” la dignità di lingua.

Ritenendo che tutto ciò abbia un senso, e che di una lingua vadano studiati contemporaneamente la morfologia, il lessico e la sintassi, nella loro reciproca interazione, Campobasso costruisce, nella prima patte del suo libro, un apparato grammaticale e sintattico che va dall’alfabeto, “rodiano”, naturalmente, alla struttura del verbo, fino a qualche cenno sul periodo ipotetico. Per parte mia,

mentre richiamo sul libro l’attenzione degli studiosi di dialettologia, mii limito a registrare che Campobasso si è buttato, a capofitto, nella spinosissima avventura, per “salvare”, lo dice lui nell’introduzione, “quel che resta di tutto ciò che rappresentava e rappresenta ancora il mio personale patrimonio linguistico dialettale”. E ne è convinto a tal punto, che già nel titolo del libro risaltano, evidenti, le linee guida della fonetica e della scrittura dei segni.

Se questo saggio sia stato accolto con favore dalla comunità linguistica di Rodi, e più in generale da quella garganica, francamente non lo so; so, però, di certo, che il volume, di quasi ottocentocinquanta pagine, fornito di un più che adeguato lessico ragionato, a supporto e complemento dell’apparato normativo, che già conosciamo, e di testi scritti in dialetto rodiano, giunge opportuno, e non fuori tempo massimo.

L’autore

Infatti, il linguista Giuseppe Antonelli, il 9 agosto scorso, ha affidato a La Lettura, il supplemento culturale del Corriere della Sera , un articolo dal titolo “Le nuove metamorfosi dei dialetti”, in cui si dibatte, anche con l’apporto di altri critici e letterati, sul ruolo e sul valore dei dialetti. Soprattutto di quelli più importanti, quali il napoletano, il siciliano, il milanese, il veneto. E si fanno nomi e cognomi di poeti e di narratori. Di Andrea Camilleri, mancato da poco, per esempio: che nei suoi romanzi ha fatto molto uso del suo siciliano, per rendere più espressivo il linguaggio chiave di alcuni protagonisti, presi e fotografati nei loro ambienti di vita e di lavoro. Cosa che ha fatto anche Mimmo Aliota, scomparso nel 2013, scrittore del Gargano, aggiungo io, in tutta la sua produzione letteraria, cospicua e molto interessante.

Aliota, più che ai segreti dei boschi, alle orchidee e allo splendido mare di questo antico e sperduto sperone garganico, si è appassionato, con il piglio dello storico e dell’antropologo, alla gente di mare, ai contadini e ai braccianti agricoli, abitatori senza storia di questa terra, rendendo loro giustizia e facendoli parlare, quando si rendeva necessario, in viestano, l’unica lingua che costoro sapevano. Sposando in pieno, così, non so se consapevolmente, la poetica di Pier Paolo Pasolini, che negli Anni 70 del secolo scorso, tuonava contro la “tragedia” della perdita del dialetto.

Riprendendo il filo del discorso, e tornando al tema centrale, quello innescato dagli studi di Vincenzo Campobasso, apprendiamo, sempre da Giuseppe Antonelli, che il “genocidio culturale” paventato da Pasolini non c’è stato, e che i dialetti godono buona salute, grazie soprattutto ai mezzi di comunicazione, fino ai social, e in seconda battuta, anche a fattori politici di identità.

“I dialetti si sono trasformati e contaminati – continua Antonelli, proprio come succede a tutte le lingue vive; passando, per usare la terminologia degli studi più recenti da ‘dialetti amici’ a ‘dialetti moderni’. Un’evoluzione parallela a quella dell’italiano, che da lingua letteraria – arcaizzante ed esclusiva – è diventata nel frattempo una lingua moderna, mescidata e – finalmente – democratica”.

Dopo la chiusa del filosofo del linguaggio dell’Università di Pavia, di ordine storico-letterara, mi corre l’obbligo di chiudere a mia volta, mirando direttamente al bersaglio, cioè al vocabolario di Campobasso, il quale assicura, in assonanza con Giuseppe Antonelli, essere, la sua creatura, uno strumento di studio e di lavoro “moderno”, privo di tutti gli arcaismi, ormai perduti.

Quanto alla fonetica e alla scrittura dei segni, un terreno, questo, minato, in cui si rispecchiano, tra i fattori geografici, storici e sociali, tutti i problemi di contatto e di interferenze linguistiche, non ho trovato difficoltà alcuna,pur non essendo io un garganico. Debbo, però, dire che sono nato in Irpinia e vivo a Vieste da oltre cinquant’anni. Ho letto con interesse moltissime voci del VOCABBLàRJƏ.

Una di queste voci, trabbàcch’ , è legata alle marinerie delle due Repubbliche marinare del Gargano, Rodi e Vieste. In tempi andati, ma c’è ancora chi ricorda questi velieri, i trabaccoli, che ricolmi di agrumi, e non solo, con un equipaggio di 5, 6 marinai, assicuravano i traffici e i commerci tra il Gargano, Venezia, Trieste e tutta la costa dalmata.

Giovanni Masi
Vieste, 13 settembre 2020

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