Col cuore in mano, il cinema di Raffaello Matarazzo

by Orio Caldiron

Negli anni cinquanta i dibattiti sono riti di esorcismo. Non fa eccezione neppure quello sul cinema popolare che si svolge sulle colonne di «l’Unità» dall’autunno 1955 alla primavera 1956. Perché milioni di spettatori li premiano con incassi record mentre i critici li bollano come filmacci d’appendice? Tutti insistono sulla disparità di giudizio tra critica e pubblico, ma pochi sono disposti a mettere in discussione i propri strumenti critici. Il fantasma del neorealismo è ancora il mito di riferimento di gran parte della critica che attribuisce all’autore l’aureola del mandato pedagogico-sociale, fuori del quale ci sono soltanto basse speculazioni commerciali e bieche corruzioni del gusto. Il caro estinto continua a essere il parametro, più un imbuto che una chiave di lettura, a cui viene commisurata ogni novità. Non importa che il mondo stia cambiando e il cinema non sia più quello di dieci anni prima.

“CATENE” IN TESTA AGLI INCASSI

La bestia nera del dibattito è Raffaello Matarazzo. I suoi film sono citati di solito con lo sdegno totalizzante che esclude ogni volontà di analisi, nonostante Catene sia nel 1949 in cima alla classifica degli incassi e Tormento (1950), I figli di nessuno (1951), Chi è senza peccato… (1952) restino sempre tra i dieci maggiori successi della stagione. Nel suo intervento lo stesso regista – che si mette del pubblico, in difesa dei trentasette milioni di spettatori che hanno visto i suoi film, tanti per un paese di quarantasei milioni di abitanti – rifiuta il giudizio sommario, respinge l’accusa di facile, deteriore sentimentalismo.

L’ingenuità di Matarazzo – che dietro la macchina da presa piange come una fontana mentre Amedeo Nazzari e Yvonne Sanson si riabbracciano nell’ultima inquadratura di Catene – è la stessa dello scrittore popolare che partecipa alla vita dei propri personaggi e si commuove soffrendo con loro. Non sono molto diversi neppure i meccanismi attraverso cui una narrativa tutt’altro che rivoluzionaria porta la donna alla ribalta affidandole il compito di sciogliere i nodi drammatici e di ristabilire la normalità, ma facendone anche il tramite nei confronti del mondo notturno dei desideri inconfessabili in cui incalzano le strategie dell’inconscio.

NEL DOPOGUERRA LA VITA RICOMINCIA

Sin dal primissimo dopoguerra il mélo italiano aveva rivendicato la propria legittimità nell’ambito del cinema spettacolare in cui la continuità prevale sulla frattura, contrapponendosi ai film-manifesto del neorealismo in cui la frattura avrebbe dovuto imporsi sulla continuità. Mario Mattoli – uno dei grandi artigiani dell’anteguerra – si candida a svolgere un ruolo importante nel nuovo corso con La vita ricomincia (1945), in cui affida a Alida Valli, la sua attrice feticcio, il compito di rappresentare il corpo stesso di un cinema sotto processo che, sullo sfondo sin troppo esemplare delle macerie di Napoli e di Cassino, respinge le accuse e continua a «parlare al vostro cuore». Nessun dubbio sul verdetto. La filosofia del regista che non risparmia le frecciate alla volgarità dei neoricchi e all’ambiguità dei potenti, coincide con la saggezza conciliatrice del professor Eduardo De Filippo: «Niente, è la vita che ricomincia come prima. Non è successo niente, non c’è stato niente. Niente scene, niente declamazioni, niente perdoni».

Nonostante Alida sia più bella che mai, non ha altrettanto successo Il canto della vita, l’altro film prodotto in quell’anno fatidico dalla stessa casa. Il veterano Carmine Gallone si affanna ad aggiornare la ricetta del dramma larmoyant, fatta di cinici seduttori e figli della colpa, sfoggiando i contrassegni dell’attualità – rastrellamenti tedeschi, improbabili partigiani, sfilate alleate tratte dai cinegiornali – senza mai riuscire a farli diventare parte integrante della vicenda, arroccata in un’immobile ambientazione contadina.

Il tentativo è condiviso da altri infaticabili del cinema popolare che sfornano un gran numero di titoli sintonizzati sul presente. Se Fatalità (1947) di Giorgio Bianchi è una datata storia passionale rivitalizzata dalle illusioni della ricostruzione, L’ebreo errante (1948) di Goffredo Alessandrini mescola con disinvoltura il manicheismo del vecchio feuilleton con l’orrore insostenibile dei lager, oscillando tra l’antica leggenda e un’affrettata pacificazione. Il grido della terra (1949) di Duilio Coletti perde di vista la vicenda sentimentale a vantaggio del tema inconsueto della nascita di Israele, tra soprassalti della guerriglia antibritannica e partecipi incursioni nel vissuto della comunità ebraica. La città dolente (1949) di Mario Bonnard vede la frontiera jugoslava nell’ottica della propaganda anticomunista, enfatizzando le vicissitudini di quanti hanno sacrificato tutto pur di restare italiani.

L’ATTUALITÀ DELLA CRONACA NERA

L’attualità è anche quella “cronaca nera” che torna alla ribalta dopo la lunga rimozione del ventennio fascista. L’altra (1947) di Carlo Ludovico Bragaglia inaugura il filone del melodramma noir interpretando nella chiave pirandelliana delle molte verità il caso Graziosi, uno dei primi drammi passionali del dopoguerra, appena riproposto da un lungo processo. Tombolo, paradiso nero (1947) di Giorgio Ferroni nella famigerata pineta di Livorno si ritaglia un intero girone di criminali, «segnorine», magnaccia, dando vita a un film a corrente alternata in cui i sopralluoghi neorealisti non interferiscono più di tanto con il gaglioffo voyeurismo della vicenda. Il filone – anzi l’avvio di un filone destinato a crescere negli anni seguenti – suscita le rimostranze di un critico per bene come Mario Gromo che vi riconosce la fragilità della produzione commerciale pronta a scivolare nel conformismo delle formule: «Prima, e per forza, tutti bravi Pierino, tutti a braccia conserte, tutti nel primo banco: ora, e per convenienza presunta, tutti cattivi, tutti cattivoni, tutti cattivacci. Era prima vietato sullo schermo il delitto? E giù delitti. L’adulterio? E giù adulteri. La prostituta? E giù prostitute. Il dopoguerra è stato una sentina, un miasma? E giù a frugare in quella sentina, in quel miasma».

IL FILM-OPERA

Nel frattempo Gallone ci riprova con Avanti a lui tremava tutta Roma (1946), in cui il tema resistenziale, con tanto di paracadutisti inglesi e di ufficiali tedeschi, si intreccia alle effusioni di Tito Gobbi e Anna Magnani, impegnati dentro e fuori il palcoscenico a rifare la Tosca. Ma è soltanto con Rigoletto (1946) che si assicura il primo posto nella classifica della stagione, rifacendo tale e quale la celebre opera di Verdi. Il singolare campione d’incasso – preceduto di poco da Il barbiere di Siviglia (1946) di Mario Costa – inaugura la fioritura del film operistico, che tiene banco per un decennio con diciotto cineopere, di cui sette firmate dal vecchio maestro.

Il mélo italiano era venuto cercando la propria strada anche nel territorio del romanzo popolare e della letteratura di consumo, riscoprendo schemi narrativi e sentimenti tematici del feuilleton ottocentesco italiano, il frequentato crocevia che vede la nascita del prodotto di massa. I maggiori successi arridono a Guido Brignone. Nel ’49 l’eclettico money-maker riesuma La sepolta viva di Francesco Mastriani e Il bacio di una morta di Carolina Invernizio, nei quali, ormai assenti i fremiti di rivendicazione sociale propri della prima fase del romanzo d’appendice, l’appiattimento sull’universo dei lettori piccoloborghesi e sottoproletari si salda al ripiegamento sugli interni familiari. Sin da queste scelte sembra prevalere un tipo di racconto apolitico, fatto di delitti sensazionali, clamorose redenzioni, figlie perdute e ritrovate, in cui il codice dell’onore ruota intorno ai personaggi femminili.

IL MODELLO INVERNIZZIO

Negli anni seguenti il “modello Invernizio” è più vivo che mai. Il veterano Carlo Campogalliani – classe 1885, nel cinema sin dal 1909, attivo in Italia, Francia, Germania, Sud America – riprende con alterna fortuna quattro dei centoventi romanzi dell’«onesta gallina della letteratura popolare»: La mano della morta (1949), La figlia del mendicante (1950), L’orfana del ghetto (1954), L’angelo delle Alpi (1956). L’effetto boomerang va ben oltre la scrittrice di Voghera fino a investire un’intera biblioteca della narrativa popolare e d’appendice.

Specchio delle mie brame, chi è la più bella del reame? Non è possibile ripensare al mélo del dopoguerra senza rievocare le presenze fantasmatiche di Silvana Mangano, Lucia Bosè, Silvana Pampanini, Ingrid Bergman, Anna Magnani, Alida Valli, Eleonora Rossi Drago e di tutte le altre – e naturalmente di tutti gli altri – che sono state lo schermo della passione ma anche la passione dello schermo, rimbalzando in migliaia di immagini al fondo delle quali abbiamo intravisto la nostra salvezza o il nostro smarrimento. Il cinema dei corpi fiammeggianti cede ormai alle pallide immagini delle truppe di rincalzo.

Silvana Mangano – un nome per tutti – passa le consegne a Myriam Bru, la stellina del commendator Rizzoli, protagonista di Ti ho sempre amato! (1953), Appassionatamente (1954), Gli amori di Manon Lescaut (1954), Le due orfanelle (1954). Anche quando si risale alle lontane fonti letterarie, il modello è ancora una volta quello dei feuilleton matarazziani. Non a caso Nazzari spunta in più di un titolo, perfetto testimonial del melodramma all’italiana senza del quale non si celebra il rito, ma anche inappuntabile professionista, quasi sempre più sensibile e misurato di quanto solitamente non gli venga riconosciuto.

DAL MÉLO ALLO SCENEGGIATO TV

Lo sceneggiato televisivo è già pronto a raccogliere l’eredità del cinema d’appendice con una pioggia di titoli – Il dottor Antonio, Piccole donne, Cime tempestose, L’alfiere, Il romanzo di un giovane povero, Orgoglio e pregiudizio, Piccolo mondo antico, Umiliati e offesi, Capitan Fracassa, Le avventure di Nicholas Nickleby, Canne al vento, L’isola del tesoro, Il romanzo di un maestro, Ottocento – mobilitando tutti insieme appassionatamente Giovanni Ruffini, Louisa May Alcott, Emily Brontë, Carlo Alianello, Octave Feuillet, Jane Austen, Antonio Fogazzaro, Théophile Gautier, Charles Dickens, Fëdor Dostoevskij, Grazia Deledda, Robert Stevenson, Edmondo De Amicis, Salvator Gotta in un tripudio di grandi sentimenti e di sofferte emozioni che il cinema aveva in parte già attraversato.

L’intera filmografia cinematografica di Anton Giulio Majano – sin dall’inizio uno dei maestri dello sceneggiato tv con Daniele Danza, Silverio Blasi, Vittorio Cottafavi, Sandro Bolchi, Giacomo Vaccari, che ebbero all’epoca ascolti da capogiro – s’iscrive nel cinema d’appendice, da L’eterna catena (1952) a Una donna prega (1953), da La domenica della buona gente (1953) a Cento serenate (1954), da Terrore sulla città (1957) a Il padrone delle ferriere (1959). Il primo – con due fratelli coltelli, uno angelo l’altro demonio, la fidanzata dell’uno che finisce con l’altro, il losco figuro in odore di stupro, l’innocente ingiustamente accusato, la trasferta nella Legione straniera, la tragica fine del cattivo – è quasi un manifesto. Il segreto di Majano – che nelle scene madri tira fuori il fazzoletto come i suoi spettatori – è la sincerità.

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