John Huston, la vocazione del viaggio

by Orio Caldiron

John Huston – alto, un po’ curvo, il volto solcato dalle rughe, il naso rotto da pugile – soprattutto nella seconda metà della sua carriera, in cui appare in molti film come attore, il grande regista americano di ascendenza irlandese è un personaggio immediatamente riconoscibile anche per il suo abbigliamento estroso fatto di berretti a quadrettoni, completi di velluto verde, vecchi panciotti arabescati, sciarpe di cashmere. Sorriso ironico sulle labbra, battuta folgorante, guarda l’interlocutore con l’aria di prenderlo in giro, anche quando, con la sua voce grave, tra un acuto e un bisbiglio, sembra dire cose serissime.

Nella conferenza stampa dedicata nell’ottobre 1966 al lancio di La Bibbia, i duetti con Dino De Laurentiis sono irresistibili. Perché un regista ateo ha accettato di dirigere il supercolosso biblico? «Non sono Cecil B. DeMille e non ho alcuna intenzione di mettermi a speculare sull’esistenza di Dio. La Bibbia è un mito universale, una grande favola che spero tocchi la gente a livello inconscio. È la prima storia d’avventure, la prima storia d’amore, il primo poliziesco a suspence e anche il primo racconto di una fede». Perché De Laurentiis l’ha prodotto? «Se dicessi che ho prodotto La Bibbia per diffondere la conoscenza delle Scritture, forse sarei frainteso, ma se dico che ho ritenuto doveroso, utile, soprattutto storicamente necessario diffondere la conoscenza delle Scritture in questo particolare momento della storia del mondo dico qualcosa in cui credo profondamente».

Nel cinema era entrato quasi quarant’anni prima, dopo una serie di esperienze diverse come la boxe, il giornalismo, la narrativa, il teatro. Il suo eroe è Walter Huston, il padre amatissimo che a un certo punto lascia la professione di ingegnere idroelettrico per dedicarsi al palcoscenico con il cognome semplificato in Huston. Straordinario attore di teatro, con il sonoro recita in parecchi film diretti da Griffith, Capra, Hawks, per apparire nei primi titoli del figlio fino alla morte avvenuta nel ’50. L’amore per i cavalli, gli viene dalla madre, la giornalista Rhea Gore che gli insegna a cavalcare fin da bambino. La vocazione del viaggio, la scelta di vivere senza fissa dimora, il futuro regista li eredita dal padre che gli fa conoscere le maggiori personalità del mondo culturale newyorkese, come Eugene O’Neill, Francis Scott Fitzgerald, Sinclair Lewis, Theodore Dreiser, facendo sedimentare nel figlio il gusto per la letteratura americana che sarà una costante significativa della sua eclettica e altalenante carriera cinematografica.

IL PRIMO CAPOLAVORO DEL NOIR

Sceneggiatore per oltre un decennio, passa alla regia con Il mistero del falco (1941), il primo capolavoro assoluto del noir, fedele allo spirito hardboiled di Dashiell Hammett come nessun altro lo è stato prima e dopo. Il film consacra da un giorno all’altro Humphrey Bogart, perfetta incarnazione di Sam Spade, il private-eye incastrato in un’inchiesta labirintica che procede alla cieca, ma entra subito nel mito. Nel 1994 la statuetta del falco è stata venduta da Christie’s per 398.000 dollari. Nonostante i film successivi – Agguato ai Tropici (1943), Il tesoro della Sierra Madre (1948), L’isola di corallo (1948) – ripropongano la maschera tra il cupo e il sardonico di Bogie a confermare il senso incombente della sconfitta che domina gli eroi hustoniani, è con Giungla d’asfalto (1950) che l’autore firma uno dei suoi risultati più alti e duraturi, il prototipo del “caper film” destinato a definire i rituali a orologeria del colpo grosso per gli anni a venire. Lo sfondo della grande città che, con le strade e le piazze deserte, i monumenti anonimi, vive la sua vita senza curarsi dell’uomo, è lo scenario in cui s’inserisce l’organizzazione della rapina, una delle tante transazioni d’affari in un universo dominato dalla logica del denaro. Sulla traccia del romanzo di William Burnett, sfila un’inconsueta galleria di personaggi indimenticabili. Sterling Hayden lo sradicato che sogna di tornare tra i cavalli del suo Kentucky. Sam Jaffe, il teorico della rapina, preparata nel suo soggiorno in prigione. Louis Calhern, l’avvocato ambiguo in bilico tra malavita e società civile, pescecane furbo, sensuale, molliccio, completamente senza scrupoli. Marilyn Monroe, strizzata nei pantaloni aderenti, è la sua “nipotina”, una lolita a alta temperatura erotica.

Il mistero del falco

Nelle grandi imprese temerarie degli anni cinquanta i flop si alternano ai successi. Lo scempio che i burocrati della Metro Goldwyn Mayer fanno di La prova del fuoco (1951), arrischiata trasposizione del capolavoro di Stephen Crane, è all’origine dei rapporti difficili con le major e alla tendenza a prodursi da sé, ritornando negli studios delle grandi case tutte le volte che il bisogno di denaro si fa impellente. Girato nelle stesse location della San Fernando Valley in cui Griffith trentacinque anni prima aveva ambientato Nascita di una nazione, il film “maledetto” rappresenta con disincantata lucidità l’orrore della guerra che Huston aveva già colto dal vivo nei tre documentari realizzati durante il secondo conflitto mondiale sulla base dell’aviazione nelle isole Aleutine (Report from the Aleutians), sulla battaglia di Montecassino fra le truppe tedesche e la trentaseiesima divisione di fanteria del Texas (The Battle of San Pietro), sulle turbe mentali dei reduci americani incapaci di riprendersi dallo shock della guerra (Let There Be Light). Tre film su commissione da considerarsi fra le cose più alte dell’intera carriera del grande “professional”.

COME ERANO BUFFI KATIE E BOGART!

La regina d’Africa (1951), tratto dal romanzo di C. S. Forester, inaugura il mito del “visiting director”, in cui il gusto della scommessa si mescola alla vita quotidiana dei set a rischio. Commedia e avventura si intrecciano nell’impresa impossibile di una ossuta missionaria (Katharine Hepburn) e un burbero ubriacone (Humphrey Bogart). Nono solo sfuggono ai tedeschi su uno sgangherato battello fluviale, l’“Africa Queen”, ma riescono persino a affondare una nave nemica. Ambientato nel Lago Vittoria nel 1914, il film è girato tra l’Uganda e lo Zaire senza mai indulgere al fascino dell’esotico, con la macchina da presa quasi sempre addosso ai personaggi. «Katie e Bogart erano proprio buffi assieme», dirà. «Ognuno dei due riusciva a far emergere le qualità migliori dell’altro, portando inaspettatamente alla luce il lato comico delle situazioni drammatiche». Se l’intera troupe è assalita dalle formiche rosse, colpita da strane malattie, bloccata dalle piogge, solo Bogart e Huston non si ammalano mai, immunizzati dalle abbondanti bevute di whisky.

La regina d’Africa

Scoperta l’intensità espressiva del colore con Moulin Rouge (1952) – la sequenza d’apertura anima la vivacissima ricostruzione del cabaret, con La Goulue, Jane Avril, Yvette Guilbert, Aristide Bruant, Chocolat e naturalmente Touluse-Loutrec, il protagonista – se ne serve nel tentativo di portare sullo schermo l’immenso romanzo di Herman Melville. Se il set di Moby Dick, la balena bianca (1956) è, tra incidenti e tempeste più a rischio del solito, il film ha scene memorabili di grande suggestione. Molto discusso all’epoca, viene oggi ampiamente rivalutato. Nel finale i marinai superstiti proseguono nonostante tutto la caccia alla balena, decisi a mettersi alla prova anche se consapevoli dell’inevitabilità del fallimento. Gregory Peck è un Achab d’insolita intensità, mentre Orson Welles incarna l’istrionico predicatore che dal pulpito si scaglia contro l’impresa blasfema del capitano.

Se nell’ultimo scorcio dei cinquanta, il cinema gli consente di viaggiare nelle varie parti del mondo, dai Carabi al Giappone, all’Africa per film diseguali come L’anima e la carne (1957), Il barbaro e la geisha (1958), Le radici del cielo (1958), nei sessanta prevale l’eclettismo dei generi, dal western al biopic, dal thriller alla spy story. Il rapporto con la letteratura si ripropone in Riflessi in un occhio d’oro (1967), tratto dal romanzo di Carson McCullers ambientato in un campo militare della Georgia: uno dei migliori del periodo per il distacco con cui riesce a mettere in scena l’ambiguo intreccio di desideri e di repressioni in un universo chiuso in se stesso.   

Nei film che realizza tra gli anni settanta e ottanta si avverte un’impennata, come se la genialità dell’autore si risvegliasse di colpo dopo tanti compromessi. Come se ricominciasse da capo una nuova carriera, più lucido e disincantato di prima. Città amara-Fat City (1972) è ambientato nel mondo della boxe più infima di una piccola città californiana. Non succede quasi nulla di rilevante nella routine quotidiana dei protagonisti alle prese con gli incontri falliti e i tentativi di guadagnare pochi dollari, ma il senso d’angoscia che prende alla gola non è lo scacco stabilito una volta per tutte dal destino, ma la deriva di una condizione storica di miseria e di malessere sociale. Sguardo freddo e insieme partecipe, radiografia cruda, dolente, implacabile, il racconto è tra i più intensi e scarnificati dell’autore che senza alcuna nostalgia rivisita le sue antiche esperienze di pugile dilettante.

GLI INCONTRI CON KIPLING E JOYCE

L’uomo che volle farsi re (1975), che segna l’incontro con Kipling inseguito da almeno vent’anni, mette in scena lo stesso scrittore che incontra Sean Connery e Michael Caine, due ex sergenti dell’armata britannica che stanno per andare nel Kafiristan in cerca di fortuna. Scambiati per dei, quando si scopre che non sono immortali, Connery viene massacrato, mentre Caine riesce a mettersi in salvo. Nel ritmo incalzante della grande avventura, ambientata nello scenario di una civiltà millenaria, il film mostra quanto sia pericoloso scambiare per inferiore una cultura diversa dalla propria. Seguendo fedelmente la traccia del bellissimo racconto di James Joyce, The Dead-Gente di Dublino (1987) rievoca la festa di compleanno nella Dublino di inizio Novecento in casa delle anziane signorine Morkan in una messinscena di grande maestri e semplicità, ma animata da un gruppo di vecchi attori del teatro irlandese. Alla figlia Angelica in stato di grazia il grande regista affida il difficile ruolo di Gretta, in cui la canzone che sente alla fine risveglia dolorosi ricordi di gioventù, mai confessati prima. Si convive senza saperlo con i propri fantasmi che – quando il tempo si ferma per un istante – sembrano chiederci conto di quello che non è stato e avrebbe potuto essere. È l’ultimo film, quasi un testamento.

You may also like

Leave a Comment

Non è consentito copiare i contenuti di questa pagina.