La donna del ritratto: sogno, colpa e delitto nel noir senza tempo di Fritz Lang

by Daniela Tonti

Se il cinema non è fatto per tradurre i sogni o tutto ciò che nella veglia si imparenta col dominio dei sogni, allora il cinema non esiste”

(Antonin Artaud, Sorcellerie et cinéma)

Una meditazione onirica sul caso, sui desideri inconfessabili, sulla colpa, distillata in una storia in cui il realismo dei personaggi convive con un costante e irrazionale presagio di sventura e di rovina che aleggia per tutta la durata del racconto. Una decisione imprudente, un passo falso, una mossa sbagliata possono cambiare in maniera irreversibile il nostro destino. Pochi passi fuori dalla confortevole cerchia delle nostre abitudini possono condurre in una strada senza uscita di disperazione e distruzione.

Adattando il romanzo di JH Wallis, Fritz Lang, per La donna del ritratto, il suo nono film americano, porta sullo schermo un archetipo del genere noir: un uomo imprigionato in una situazione surreale che lo trasformerà da cittadino onesto, “un vecchio barbagianni” in un fuggitivo disperato disposto a tutto pur di salvare la pelle.

Realizzato in collaborazione con lo scrittore e produttore Nunnally Johnson, il film ha come protagonista il grande Edward G. Robinson, nei panni di Richard Wanley e la bellissima Joan Bennett che interpreta Alice, la femme fatale che lo trascina nell’oscurità.

Wanley è un professore di criminologia che, rimasto solo in città mentre la famiglia è in vacanza, passeggiando rimane affascinato dal ritratto di una donna esposto in una galleria d’arte. Ed è proprio davanti a quel ritratto che la misteriosa modella si materializza come per magia.

Quello che Fritz Lang ci mostra nella sequenza della sua entrata in scena non è il primo piano di Joan Bennett. Ma il primo piano del riflesso di Joan Bennett nella vetrina della galleria d’arte in un gioco di immagini speculari perfettamente simmetriche dei tre protagonisti (il professore, la modella alle sue spalle e la donna del ritratto) che richiama il livello semantico del doppio e dell’inganno, del sogno che si sovrappone alla realtà, in una delle sequenze più iconiche della storia del cinema.

Una sequenza che è anche una riflessione sul mezzo cinematografico, sulle teorie sul cinema come simulacro della mente che associano, seguendo le tesi freudiane, il carattere visivo e intraducibile dell’esperienza onirica alla visione di un’opera cinematografica. Teorie che vanno da Hugo Munsterberg a Allendy a Ramain e affondano le radici nel surrealismo degli anni Venti e che paragonano la dissociazione emotiva che si verifica nel sogno a quella durante la visione di un film fino a indagare la funzione ipnogenica della sala buia.

Joan Bennett si rivela alle spalle del professore indovinando i suoi pensieri nascosti e lo invita nel suo appartamento.

L’incipit di una banale tresca amorosa extraconiugale si trasforma nel giro di pochi istanti in una storia di omicidio e di sensi di colpa quando i due sono sorpresi dal fidanzato ricco e geloso di lei. Piuttosto che rischiare la sua bella vita familiare, il disonore e la vergogna, denunciando le sue azioni alla polizia, Wanley decide di chiedere ad Alice di aiutarlo a occultare il corpo e far sparire tutte le prove. Ma tutti i meticolosi piani del professore di criminologia, teorico del delitto perfetto, gli si sgretoleranno tra le mani pezzo a pezzo e lo spettatore vedrà la corda stringersi lentamente intorno al suo collo fino all’inaspettato epilogo finale che non vi riveleremo.

La donna del ritratto ebbe abbastanza successo da permettere a Fritz Lang e alle sue star Edward G. Robinson, Joan Bennett e Dan Duryea di tornare l’anno successivo con un qualcosa di simile La strada scarlatta, una storia ancora più oscura e inquietante di un uomo mite, intrappolato in un matrimonio asfissiante vittima di una moglie che gli rende la vita un inferno e distrutto dai suoi segreti bisogni interiori.  Un film considerato la più pura indagine di Lang sulla natura della colpa e della coscienza.

Il regista di M. il mostro di Düsseldorfè sempre molto a suo agio in quel mondo oscuro, dove le ombre minacciano di distruggere tutto ciò che hanno davanti e dove le storie esplicano intrinsecamente una morale contorta della vita, delle aspirazioni e della piccola e mediocre borghesia.

Nei suoi film, il soggetto è sempre un pretesto per indagare la realtà, la colpevolezza relativa, la verità che si nasconde dietro le apparenze, un viaggio su una linea sottile di polivalenze e del dubbio, delle contraddizioni dell’essere umano e delle sue mille inconsistenze.

Il cinema di Lang non si sofferma molto sulla denuncia sociale ma mette in evidenza la meccanica delle cose, nello svolgimento del racconto per denudare l’irrazionalità dell’esistenza. Lang è un cultore dell’immagine raffinata.

C’è, nei suoi film, quasi sempre un colpevole innocente in una situazione ambigua che non è facilmente definibile. È la poetica del dubbio che mette in evidenza qualsiasi non sense del comportamento umano portato sullo schermo con uno stile rigoroso e quasi asciutto. Non si sono effetti speciali narrativi o visivi. C’è l’uomo, le molteplici conseguenze di interpretazioni sulla realtà sfaccettata mai univoca ma sempre soggetta ad apparenze e fraintendimenti.

Da molti definito uno dei padri del cinema moderno, Fritz Lang deve molto al teatro di Max Reinhardt e nelle sue prime opere è riscontrabile un’attenzione particolare per la scenografia e questa componente teatrale seppure sempre presente non sarà mai predominante. Rifiutò di collaborare con il nazismo e rifiutò persino la direzione del cinema tedesco offertagli da Goebbles nel 1933 e il suo fu un lungo esilio prima in Francia e poi negli Stati Uniti. Furono essenzialmente i Cahiers a rivalutare i suoi film.

L’unica critica mossa a La donna del ritratto riguarda il finale, modificato per motivi di censura. Molti critici paragonarono La donna del ritratto a Il mago di Oz ma Lang difese strenuamente quella scelta fino alla fine, “l’unico finale possibile”. Lo fece con Peter Bogdanovich a cui disse:

Ora, cos’altro è il finale di Caligari se non il finale de La donna del ritratto? E lo feci inconsciamente – quando mi venne l’idea de La donna del ritratto non pensai affatto che stavo copiando me stesso”

Caligari è Das Kabinett des Dr. Caligari, il capolavoro del cinema espressionista tedesco realizzato da Robert Wiene nel 1920. Il progetto era stato dapprima affidato da a Fritz Lang che non lo realizzò ma suggerì l’idea del finale.

Un epilogo consolatorio, quasi assolutorio per un personaggio vittima in fondo solo di desideri incoercibili e avverse circostanze.

Il film completo è su youtube.

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