Lost in Translation 20 anni dopo, un gioiello che ha mantenuto intatto la sua bellezza e la sua originalità

by Claudio Botta

Mentre è attesissima a Venezia la prima mondiale di Priscilla, il biopic che racconterà la storia d’amore tra Elvis Presley e la sua musa – adattamento cinematografico del memoir Elvis and Me -, Sofia Coppola e l’esercito dei suoi ammiratori in tutto il mondo festeggerà dopo qualche settimana il ventennale dell’uscita di Lost in Translation, il suo capolavoro, opera seconda che l’ha – dopo il folgorante esordio con Il giardino delle vergini suicide – definitivamente affrancata dall’essere figlia di uno dei più grandi registi di tutti i tempi.

Un film delizioso, che il tempo ha preservato e consegnato intatto a nuove generazioni di cinefili in tutte le sue sfumature. L’incontro tra due passaggi emotivi differenti ma simili, la crisi di mezza età e quella dei venticinque anni, quando le possibilità che ammiri dall’alto di una vita ancora acerba nonostante una laurea appaiono tante, ma metterle a fuoco e sceglierne una è davvero faticoso. Una storia d’amore che non si traduce in un doppio tradimento e in un finale scontato, l’attrazione e l’alchimia non derivate dal sesso ma dalla complicità, dalle affinità, dal diventare l’uno la sponda e la salvezza dell’altra, entrambi persi e confusi in un paese straniero, in matrimoni che si trascinano o che non riescono a decollare. Bill Murray (il film è stato scritto pensando a lui, e se non avesse accettato – dopo un lungo corteggiamento – non sarebbe mai stato girato, ha sempre ripetuto Coppola) interpreta il personaggio più intenso, ironico, brillante, malinconico, carismatico della sua carriera, anche se non è stato premiato da un Oscar che avrebbe strameritato: Bob Harris, un attore in fase declinante che accetta per soldi di girare uno spot in Giappone, e stordito dal jet lag si ritrova nelle notti insonni e annoiate ad interrogarsi su di sé, sulla sua vita, sulle scelte sempre delegate e mai davvero condivise, su una famiglia lontana nella distanza e nella percezione. Scarlett Johansson, all’epoca diciassettenne, aveva giù avuto esperienze importanti sul set ed è incantevole e perfettamente centrata nei panni di Charlotte, la giovane moglie di un fotografo troppo preso da sé e dal suo lavoro, la confusione, la paura, il disagio, la speranza espresse attraverso uno sguardo imbronciato destinato a diventare iconico. E Tokyo che non è una semplice cornice, sfondo esotico e suggestivo, ma un mondo affascinante da scoprire e nel quale perdersi e ritrovarsi con le sue luci nella notte, il contrasto tra moderna avanguardia e rigida tradizione, i ristoranti e i videogame, i costumi d’epoca e i personaggi che sembrano manga in carne e ossa. Il Park Hyatt che da (prestigioso) hotel diventa luogo di culto e meta di pellegrinaggio per ammirare e cercare di rivivere la vista mozzafiato sulla metropoli e l’atmosfera del bar e del ristorante dove sono state girate numerose scene (sono aperti al pubblico indipendentemente dal soggiorno e dal pernottamento nella struttura).

La musica, che nei film di Sofia Coppola non è mai semplice colonna sonora, ma anima e cuore pulsante del progetto. Lei era stata sposata per quattro anni con Spike Jonze (e tanto del loro rapporto in dissolvenza è finito nella sceneggiatura – premiata con l’Oscar l’anno successivo – prima, e nel girato poi), il regista preferito dai Sonic Youth. Per Lost in Translation è riuscita a convincere il riluttante Kevin Shields, leader dei My Bloody Valentine, a garantire un contributo prezioso di quattro brani inediti (uno melodico e tre strumentali), oltre a Sometimes estratto dal loro capolavoro Loveless. E ancora, sono presenti esponenti di punta dell’alt rock come gli Air, i Phoenix, i Death in Vegas, ma il diamante più brillante è Just Like Honey dei Jesus & Mary Chain, il singolo più bello della loro carriera, che viene proposto in apertura e nell’indimenticabile finale. Tracce che accompagnano in maniera mirabile le scene e immagini cui sono abbinate, ma che possono ancora oggi essere ascoltate autonomamente. Compresa quella ‘fantasma’ che tutti ricorderanno, More than This dei Roxy Music cantata goffamente al karaoke da Murray (decisamente più a suo agio Johansson con parrucca rosa alle prese con Brass in Pocket dei Pretenders: qualche anno dopo lei ha addirittura inciso Anywhere I Lay My Head,un album di cover di Tom Waits, e in due tracce compare come back vocalist David Bowie).

I 120 milioni di dollari di incassi globali testimoniano anche il grande successo commerciale dell’epoca (di fronte a un budget di appena 4 milioni), oltre che di critica, così come la pioggia di premi e riconoscimenti successivi. Vent’anni dopo, non si usano più i fax per comunicare dagli Stati Uniti al Giappone, ma la magia della storia resta intatta. Nessuno dei protagonisti (i due attori e la regista) ha mai svelato quello che lui sussurra a lei nell’orecchio, prima di abbracciarla e baciarla per la prima e ultima volta, e riprendere la strada per l’aeroporto. E quel finale aperto – al desiderio degli spettatori partecipi come raramente accade – è uno dei segreti di una pellicola bellissima al punto da non avere avuto un sequel, per il rispetto che si deve alle combinazioni irripetibili che danno vita ai capolavori.

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